lunedì, giugno 22, 2015
Viaggio a ritroso. ‘15
Martedì, 02 Giugno 2015.
Come ogni anno, ecco che si riparte. L’ultima settimana è stata davvero pesante, tanto che mi è spuntato un Herpes sul labbro e le articolazioni si sono fatte sentire un po’ più del solito.
Comunque, ieri sera , preparata la valigia, abbiamo fatto “un poco di ammore” e la serata è passata tranquilla, con Cicitto, che continuava a dirmi: “…Lo sai che ti amo?... Tu mi ami?...” e poi quando eravamo a letto mi dice: “dammi dei consigli” ed io: “Non usare il fon intanto che sei sotto la doccia … Non usare la candeggina per farti il bidet … Non usare il microonde per asciugarti i piedi …” insomma dolci amenità tipiche di due amanti innamorati.
La notte è passata veloce, già alle sette ero sveglio e dopo un po’ di pipì e le mia solite pillole, torno a letto, cercando di riprendere sonno, anche se solo a spizzichi e bocconi, si sonnecchia fin verso le nove. Tra docce e ultimi preparativi si arriva alle dieci. Andiamo in aeroporto, attraversando una tangenziale quasi deserta. Unico traffico in prossimità dell’ingresso del terminal, tanto che ci siamo salutati con un bacio e un abbraccio fugace, perché già suonavano dietro la nostra macchina per poter passare.
In aeroporto tutto abbastanza tranquillo. Ho fatto velocemente il check-in elettronico, potendo così cambiare posto, per stare vicino al finestrino. Mi avvio per consegnare la valigia e allo sportello mi trovo due “barbute” che se la chiacchieravano, dicendo: “Dici che devo tagliarla di più?” e l’altro : “No, basta rifilarla un pochino sotto il collo, sulle guance lasciala così”. Poi, finalmente si accorgono della mia presenza, quello in piedi si allontano salutando e l’addetto mi chiede con voce quasi schifata: “Priority?”. “ Cosa?”. E lui insiste, come parlando ad un marziano: “Priority”. “Scusi, devo consegnare solo la valigia”. Ancora più schifato : “Ah, no Priority Fly? Allora deve andare in fondo, le due ultime postazioni”. E tira un sospiro di sollievo, manco avessi dovuto mettere la valigia nel mezzo del suo salotto di lusso, pagato con le marchette fatte in Priority Fly. Quando arrivo allo sportello indicatomi, chi ti trovo? Di nuovo “la barbuta” con il cruccio per la barba, che ancora chiacchierava con altre colleghe, questa volta di chissà quale meta per delle possibili vacanze … ma ancora sfaccendato, e avrebbe fatto meglio a chiedere per una dieta da seguire oppure dove andare per farsi cambiare la divisa, che fortemente tirava sulla pancia.
Al passaggio sotto il metal detector si vedono le “allegre famiglioule”, che si meriterebbero l’Oscar per la buona educazione, sia la loro che quella che hanno impartito ai loro “figliuoli”. E’ ancora molto presto e così decido di fermarmi al bar per mangiare qualcosa: un panino e una bottiglietta d’acqua ben otto euro e venti. Mi sono rifiutato di prendere anche il caffè!
Intanto che aspetto l’imbarco, mi siedo guardando il computer, attorniato dalle allegre “famigliuole” con deliziosi “figliuoli” al seguito, che stanno comodamente con i piedi sulle sedie, ora saltando ora ballando, ora correndo per l’aeroporto, con padre distratto che solo diversi minuti cercando Asia, si mette in Ansia, cercandola dapprima sotto le sedie (chissà perché) e poi in bagno (ancora non capisco la sequenza di ricerca), al suo seguito il “figliuoletto” vagamente ciula, di circa otto anni, che forse si aspetta che il padre possa dare qualche scappellotto alla sorella e non lui non vuole assolutamente perderselo. Tornano trionfanti e non si capisce se il padre sia felice perché sia stato tanto bravo da riuscire a trovare la sua “figliuoletta” dispersa o per lo scampato pericolo, il “figliuoletto” ciula non si sa se sia riuscito ad assistere al ceffone o solo perché ciula, la “figliuoletta” Asia forse ha scampato il ceffone o forse è così felice di chiamarsi Asia e di essere stata chiamata a voce alta per tutto l’aeroporto che ha avuto il suo primi fremito alla giovane età di sei anni.
Ma ecco che chiamano l’imbarco e incomincia la ressa e lo spingi spingi, specie dai viaggiatori più anziani, quasi che qualcuno possa rubar loro il posto prenotato. L’accesso è tramite il ponte d’imbarco e lo stupore è vedere quanto sia piccolo l’aereo: due sole file di poltrone per parte, per un massimo di novantotto posti. Io sono sul fondo, vicino al finestrino. Lo steward che mi indica il posto mi pare una “pazza” giovane e con un arco lordotico accentuato come quello di Belen. Nei sedili vicini al mio ci sono altre famigliuole e una coppia di anziane, sedute però una avanti e una dietro, che incominciano subito a raccontarsi di tutto ed ora conosco per filo e per segno tutto ciò che c’è da sapere sulle loro famiglie e collaterali, tutto su Caltagirone e Briolo , conoscendo benissimo, parenti, amici e conoscenti con relativi indirizzi, mestieri, patologie e terapie e medici e strutture mediche. Una delle due attacca bottone con lo steward e gli chiede di dove fosse e lui con voce frocigna gli dice: “Di Cagliari sono” e la signora: “A in Puglia …”, “ No signora, Cagliari”, “ Ah certo, in Calabria, certo, bella”, “No, signora,Cagliari, in Sardegna”, “Sì, certo Cagliari, Porto Torres, mio marito ci ha lavorato, ha viaggiato tanto …”.
Ma ormai siamo pronti per il decollo, cinture allacciate, sedili alzati e bambini urlanti, quasi gli stessero stappando i denti da latte. Un padre, con il figliuoletto vicino gli dice di tenergli la mano e di incrociare le dita, ma il vero terrore si vedeva solo negli occhi del padre, mentre al figlio non gli e ne fregava un fico secco.
Si parte, e inizia un concerto di pianti, urli e strepiti di bambini di ogni ordine d’età, dai neonati ai prescolari, e in quel momento avrei voluto urlare anch’io: solo per il gusto di rompere i coglioni agli amabili “genituori” che non hanno saputo dare la ben che minima educazione ai piccoli tenorini in erba.
Per fortuna il resto del viaggio è andato abbastanza bene: ho scritto un po’ sul PC, ho guardato fuori dal finestrino ed ho gustato i meravigliosi snack offerti dall’Alitalia: quindici grammi di mini crostini ed in bicchiere da cento ml di Cola. In dirittura di arrivo riprende il concerto, ovviamente senza il ben che minimo intervento da parte dei “meravigliusi genituori”, per tacitare la loro prole.
Finalmente a terra, con ben venti minuti di anticipo, scendiamo e già nell’aria si sente il profumo di salsedine e di erbe secche. Arriviamo all’interno dell’aeroporto e ci mettiamo in attesa dei bagagli, ma passano dieci minuti, poi venti e poi ancora trenta, ma dei bagagli neppure l’ombra. Intanto le allegre “famigliuole” erano intente a rincorrere i deliziosi pargoli urlanti, tra stranieri allibiti, sicani incazzati, addetti alla manutenzione delle pedane rotanti per i bagagli, giacchè si sono finalmente accorti che la postazione quattro è andata in “corto” e ci hanno dirottato sulla piattaforma tre. Ed ecco finalmente le valige. Intanto mio cognato mi aveva già chiamato due volte, ma non potevo certo lasciare la valigia in regali allo staff del Fontanarossa.
Finalmente fuori, trionfante con la mia valigia, abbraccio Anna e Sebbo e ci avviamo verso la macchina. Il problema è stato uscire dal parcheggio, in quanto le segnalazione erano “vaghe e tendenziose”, portando la nostra e altre macchine a fare giri assurdi che non portavano da nessuna parte, dovendo fare marcia indietro con manovre azzardate e rocambolesche e, dopo un giro labirintico, via verso la tangenziale e poi l’autostrada.
Per strada le solite chiacchiere, quindi a casa, con mia madre che non voleva più staccarsi dall’abbraccio, con le lacrime agli occhi. “Pronto in tavola, forza che è già pronto”. Io mi schermisco, dicendo che avevo già mangiato il famoso panino da sei euro con l’acqua da due euro e venti, più i quindici grammi di mini crostini. Ma nulla da fare, era già impiattato e si doveva mangiare: pasta alla Norma, cotolette di pollo, insalata, ciliegie, acqua, vino e caffè. Mi sono rifiutato di andare oltre un po’ di pasta, ma la mia pancia già esplodeva.
Decido di dare i miei regali e vado in camera per aprire la valigia. Beh, sorpresa delle sorprese, avevo tutti i regali tranne quelli loro. Nervoso e agitazione. Decido di chiamare Cicitto, ma lui era ormai andato a casa sua e mi dice che domani, quando torma a Merate, controllerà in armadio e se fossero li si sarebbe premurato di mandarmeli con un pacco celere.
Vado in camera e sistemo un po’ di cose, scrivo ancora qualche riga, poi rimango a parlare con mia madre di tutte le disgrazie, dei morti e dei malati gravi, degli accidenti e dei casini di mezzo quartiere … no, forse era tutto il quartiere e il parentado e anche di quelli che non conosco, ma di cui avrei dovuto sapere “vita morte e miracoli”.
In serata, mia sorella mi manda gli arancini e delle “cipolline” (fagottini di pasta sfoglia, ripieni di cipolle brasate e mozzarella) e facciamo cena con quelli. Io arrivo a mangiarne tre, più una “cipollina”. SONO DAVVERO PIENO!!!
La serata passa tra chiacchiere e televisione e andiamo a coricarci verso le dodici e mezza. Sono stanco e non tento neanche di leggere. Il lettino da educanda sarà un banco di prova, avendo perso l’abitudine a dormire in uno spazio così piccolo. Ricordo ancora di quell’anno in cui mi precipitai dal letto, non calibrando le misure: non voglio ripetermi!
Mercoledì, 03 Giugno 2015.
Alle quattro di notte mi son dovuto alzare a prendere del Gaviscon, per il tremendo mal di stomaco: non sono abituato a mangiare tanto e cose fritte e bere un vino così pesante. Poi ho dormito a tratti fin verso le dieci.
Quando mi sono alzato, mia madre aveva già pronta la caffettiera. Vado ciondolando per casa, quando passa a trovarci la “Zia” Enna, di cui ho saputo solo ieri sera della recentissima dipartita del marito, che sapevo essere gravemente malato. Ben due ore di racconto, con dovizie di particolari della malattia e della morte e degli strascici familiari. Andata via lei, arriva zia Tina … e “trionfa l’allegria”: una valanga di dolori, malori, dottori, farmaci e esami: perché una TAC non si rifiuta mai!
Pranziamo e mia madre mette in tavola zucchine lessate con le patate e pane casereccio da pucciare, seppie in insalata, le cotolette di pollo, “che è un peccato buttarle”, frutta, acqua, vino e caffè. Per tutto il tempo e per tutto il pomeriggio, fin verso le sette, non si è fatto che parlare, a volte anche animatamente, di malanni e accidenti, di quanto sia i figli che le nuore non siano adeguati e di come lei cambierà il mondo ed il modo e tutti si meraviglieranno, che lei non è stupida e le cose le sa e noi vedremo …
Ma io dovevo prepararmi ad uscire e mi infilo in doccia, anche per togliermi di dosso tutte quelle parole e quelle iperbole, stanco solo ad ascoltare, ma in alcuni momenti non ho potuto trattenermi dallo sbottare, ribadendo che loro ormai sono prossimi agli ottant’anni e qualche accidente di percorso è naturale, ma che io a soli cinquant’anni ho già tanti acciacchi che dovrò trascinarmi almeno per altri trent’anni. Al che si è un po’ tacitata … ma solo per poco, tornando di nuovo alla carica. Per fortuna verso le otto e mezza è passata Anna e Sebastiano, per andare a cena fuori.
Ci dirigiamo verso Giarre, alla Tavernetta, dove eravamo già stati altre volte. Con noi c’erano ovviamente Irene, Federica e Salvo, Maria con Nunzio, Katia con Saro, e Orazio con la moglie e i due figli. Pizza per tutti ed io ordino la Norma, ma prima ci portano patatine fritte, tagliate a mano, e bruschette. La torta, per festeggiare il compleanno di Anna, ovviamente l’ha fatta Sebbo, anche se questo “esperimento” non è riuscito perfettamente. Foto, regali e canzoncine d’auguri: “Happy birthday, happy birthday”
Verso le undici e mezzo eravamo già a casa, ci siamo salutati intanto che mi ha chiamato Cicitto al telefono.
Un po’ di televisione e poi in camera a scrivere fin verso la due e mezza.
Giovedì, 04 giugno 2015.
Sta notte sono rimasto a leggere fin verso le sei meno un quarto. Per fortuna ho puntato la sveglia per le undici.
Mia madre è andata in campagna con zia Tina e Zio Pippo, per cercare le verdure selvatiche, anche se poi a raccoglierle è stato solo lo zio, mentre mia madre e sua sorella sono rimaste in macchina ad aspettare.
Il tempo di prepararmi e verso le dodici è arrivata Lucia e Valeria. Che bello rivedersi e abbracciarsi. Abbiamo subito iniziato a parlare e raccontarci un anno di vita lontani gli uni dagli altri. Prima tappa in negozio per un po’ di spesa, poi a casa, dove aveva la gioia di mostrarmi i lavori di sistemazione del terrazzo. La casa in sé stessa è sempre una “non casa”, un piccolo corridoio su due piani unito da una scaletta ripida e stretta, dove la luce arriva solo dalle due porte poste alle estremità. Ma loro sono così orgogliose del loro regno, che mi duole il cuore a dire di tutte le mancanze e delle cose necessarie che non ci sono. Il terrazzo, effettivamente è migliorato e sembra più grande, anche se ancora necessita di lavori, ma appena possibile dovranno occuparsi degli interni, prima che arrivi l’inverno. Ci si organizza per il pranzo in terrazza, anche se il sole cocente, appena schermato dal policarbonato, dava un effetto serra da far sciogliere il cervello. Aveva già cucinato in anticipo: riso rosso ( riso bollito a cui ha aggiunto un vasetto di sugo alla amatriciana e del formaggio filante ), cotolette fritte ( acquistate già pronte, solo da friggere ), insalata e come dessert granita al limone, che si è in parte sciolta per il caldo. Inutile dire che abbiamo parlato per tutto il tempo, cercando di convincere Valeria a iniziare e proseguire con costanza la terapia per le crisi di panico che le stanno creando grossi problemi. Dopo il pranzo, abbiamo chiacchierato sul divano e poi siamo usciti, facendo un giro lungo e poco coerente: dapprima verso Torre Archirafi, dove ci siamo fermati a respirare il profumo intenso del mare ed abbiamo fatto delle foto, poi siamo tornati a Macchia per andare in farmacia, poi siamo ripassati da casa, dimenticando che avremmo dovuto lasciare le scarpe dal calzolaio. Ormai erano quasi le sette e mezza e mi hanno riaccompagnato a casa. Lunghi abbracci e tanti baci. Quelle due donne, con una marea di problemi, mi vogliono davvero bene ed io a loro. Mi sono sentito molto più a mio agio in quella “non casa”, con quelle persone fragili, che ieri sera, una tavolata mal assortita in cui ciascuno parlava di sé, ma credo che non ascoltasse nessuno, ciascuno col proprio soliloquio, ciascuno a rincorrere i propri pensieri e forse a raccontarseli da soli, solo per non dimenticarli, solo per non perderli nell’oblio di una solitudine abissale.
Il resto della serata, l’ho passato a casa, guardando la TV e chiacchierando con mia madre, che non smette di raccontare, di fare commenti, di asciugarsi le lacrime, quando parla di mio padre e della sua solitudine incolmabile. Mi dice che in queste due notti ha dormito profondamente, senza neanche preoccuparsi, che la finestra rimanesse chiusa o aperta: ora c’è qualcuno in casa e non è più sola.
Quando andiamo a letto è già la una e mezza, ma rimango a leggere fin verso le quattro, poi il lungo sonno. Domani devono venire delle persone e quindi punto la sveglia per le nove.
Venerdì, 05 giugno 2015.
Suona la sveglia e mi metto in moto, anche sarei volentieri rimasto ancora a letto. Dopo le abluzioni, aspetto che arrivi SkassaNella, che vuole un consulto. Arriva per le dieci e mezza ( avrei fatto bene a dormire ancora un po’ ), resta fin verso le dodici meno dieci, lasciandomi dieci euro. E’ il pensiero che conta. Torno in camera e riprendo a leggere fin quando non arrivano i miei nipoti, Anna e Sebbo per il pranzo: le verdure selvatiche lessate, salsiccia alla brace, frittelline di asparagi selvatici, frutta, acqua, vino, e caffè.
Dopo un po’ di conversazioni varie con Sebbo e Anna sulla fibrillazione atriale e possibile trattamento, mi rimetto a leggere, fin quando, alle quattro arriva l’altra Skass, che si trattiene per un0ora e mezza, e mi lascia cinquanta euro.
Il resto del pomeriggio è dedicato alla lettura, fin quando verso le otto, mi chiamano per la cena. Mangiamo le stesse cose del pranzo e dopo sia mia zia che mia madre vorrebbero che leggessi loro i Tarocchi. E così faccio, tra tante polemiche e discussioni, tra chiacchiere inutili e recriminazioni, ma alla fine arriva anche un contatto col Mondo dello Spirito, che è stato molto toccante, in cui mio padre parla a mia madre con un’affettività da commuovere tutti.
Ormai alle dodici, zia Tina va a casa e con mia madre restiamo a parlare ancora, fin verso la una e venti. Poi a leggere, ancora fin quasi le quattro, finendo il libro di Margaret Mazzantini: “Splendore”. Stanco per le lunghe ore di lettura e un po’ deluso: mi avevano già parlato di questo libro come di qualcosa davvero speciale, da non perdere, che trattava il tema dell’omosessualità in modo garbato e tenero. Grande delusione!!! Sebbene la scrittura della Mazzantini sia fluida e piacevole, il testo ha davvero delle grandi pecche: primo fra tutte, una sequela di luoghi comuni, di cose sentite dire o riportate male, l’incapacità di descrivere il rapporto sessuale tra i protagonisti, glissando su un romanticismo da telenovelas, per alcuni versi sembrava la versione italianizzata e edulcorata di “I Segreti Brokeback Mountain”, inoltre le pagine finali sembrano essere state chiuse senza un senso, senza una vera chiusura, quasi non sapesse come smettere quel feuilleton. In alcuni punti, mi sono quasi sentito offeso, sia come lettore, che soprattutto come omosessuale.
Sabato 06, Giugno 2015.
Ovviamente, dopo una nottata di letture e congetture, mi sono svegliato tardi, molto tardi. Ormai erano le dodici. Caffè, doccia e quattro chiacchiere, quindi il pranzo, con una pasta deliziosa con le zucchine saltate con formaggio filante. Poi chiacchiere fin verso le cinque e poi al computer.
Dopo mezz’ora passa zio Pippo e zia Tina, per andare a fare un po’ di spesa nel piccolo market dei paese.
La macchina ha già dato tutto quello che aveva da dare anni fa e ora arranca tra sbuffi e sussulti, anche per una frizione pigiata male, sentendo l’esausto motore che aumenta di giri e sobbalza, un forte odore di gas di scarico riempie l’abitacolo, con un rombo di marmitta logora. Ma di tutto questo loro non se ne accorgono, anzi, quando provo a chiedere se avesse qualche problema, dice che la sua macchina va benissimo. Il market ha più l’aspetto di un negozietto di paese un po’ allargato, con la gente che ha difficoltà a passare nelle varie corsie e intanto che si incrocia, con i cestini mezzi vuoti, si fanno lunghe conversazioni. Il bancone della gastronomia ha un aspetto di vecchia bottega, con forte odore di pecorino appena tagliato, e anche qui chiacchiere e confidenze, così come al banco della macelleria, dove la gente compra la carne chiedendo tre bistecche e due etti di macinato. Alla cassa, arrivo trafelato, in quanto zia Tina, arranca con la stampella in una mano e un foglietto striminzito che non riesce a leggere perché non ha gli occhiali e perché la grafia è davvero illeggibile. Il cassiere, quando mi accorgo di aver preso l’acqua liscia anziché frizzante, lascia la cassa per andare lui stesso a sostituirla. Pago e usciamo, carichiamo la spesa sulla stanca macchina e calcando sull’acceleratore senza sollevare la frizione, con un forte odore di motore bruciato, incominciamo il giro del paese per andare a prendere il pane “dove solo lì lo fanno bene”, ma era chiuso, quindi si riparte, freno a mano tirato e acceleratore premuto a tutto gas senza muoverci, verso l’altro panettiere. Intanto, passando dalla piazza, si vedono gli addobbi di un matrimonio e qui parte il “toto matrimonio”: zia Tina è convinta sia la nipote di Turi Vitale o forse una parente di “Russo il panettiere”, che per questo è chiuso, ma forse non è né l’una né l’altra, “Domani ci spio alla signora Sarina, che lei sa tutto”. Arriviamo a casa, tra discussioni e grida, ma senza sapere di cosa si stesse discutendo. Io ho i nervi a fior di pelle e portando di corsa i sacchetti al piano di sopra, impreco con mia madre, dicendo: “E’ colpa tua!!! Io con questi due pazzi non ci esco più, mi hanno rincretinito!”. Sono grondante di sudore, intanto che salgo e scendo le scale per portare anche le casse di acqua. Ma non è ancora finita: incomincia il balletto dello scontrino: “Tu quanto hai speso, questo è il mio melone e le carote e … Ora fai il conto di quanto ti devo … che poi ci sono anche cinque euro … allora sette e trentasei più cinque però devi levare il pane e la carbonella …”.
NON NE POSSO PIUUU!!! Mi sembra di essere Magda che deve ascoltare Furio!
Lascio le sorelle a chiarirsi sui conti, guardando “Peppa”, così come continuano a chiamare la telenovelas “Il Segreto”, anche se in questa seconda serie, la famigerata “Pepa” non c’è. “No, ma ora ci chiamo a zio Pippo, che almeno sbaria, che gli dico che c’è Peppa … ma non risponde, chi sape dov’è … magari è andato a prendere lo spirito, che io c’è l’ho detto che va domani quando va a prendere il pane, ma non capisce nenti … ah Pippo dov’eri, vedi che c’è Peppa … come dove? … o solito … si ciao”. Ed io non so se ridere o piangere.
Vengo in camera e accendo il PC, scrivo qualcosa, mi perdo a gironzolare tra le foto, che sposto dal cellulare all’hard disk, intanto passa Anna e Sebastiano e ci mettiamo a parlare in “cameretta” come dei liceali: Anna ed io seduti sul letto e Sebbo sulla cyclette, che finge di pedalare e si finisce per parlare del Pride, della chiesa cattolica, dei politici corrotti e intanto si son fatte le nove e trentacinque. Loro vanno a casa, decidendo che domani sera andiamo da “Saro a Baracca”, per rinverdire i vecchi tempi con un panino con hamburger e formaggio al pepe verde e una Ceres media ghiacciata, seduti sotto gli alberi di Piazza Carmine.
Cena semplice, con Bresaola rucola e grana, intanto è passata Rosetta con Santo e Fabiana e, tra chiacchiere e grida, consegno i regali, poi Rosetta vuole farmi vedere la macchina che ha comprato l’inverno scorso: una Lancia Musa, di seconda mano, ma super accessoriata, di un color glicine metallizzato. Saliamo e vuole assolutamente che facciamo un giro. Arriviamo fino in piazza del comune, per poi ridiscendere a casa. E’ incredibile come non sia cambiata di una virgola: unico pensiero è comprare cose, pensare che tutti siano invidiosi di lei e lasciarsi coinvolgere in amicizie, che alla lunga, si riveleranno perdenti.
Quando vanno via, restiamo, mia madre ed io a guardare la Tv e chiacchierare fin verso la una e mezza. Decidiamo di andare a dormire, ma non è così semplice: una volta in camera accendo il computer e inizio a guardare un film hard, finendo ovviamente per eccitarmi e per calmare quell’eccitazione. Nonostante questo, non ho sonno e inizio una nuova lettura.
Guardo l’orologio e mi accorgo che sono le quattro, dovrei andare a fare la pipì, ma ho la necessità di fumare e così, in mutande esco in balcone. C’è solo il silenzio, tutto sembra irreale, solo un autoclave dalle case vicine si innesca periodico e qualche latrato di cane in lontananza. Rientro e sento mia madre russacchiare in camera sua. Mi metto a letto e mi sento di nuovo “fuori luogo”, come l’altra sera in pizzeria, dove mi sentivo parlare di cose futili con persone con cui non ho nulla a che spartire, un orologio che segna l’ora sbagliata, un navigatore che ti ha portato per strade che avevi abbandonato. Mi manca il mio letto, mi manca il calore del mio uomo vicino. Spero di addormentarmi e ritrovarmi altrove … a casa mia.
Domenica, 07 Giugno 2015.
Mi sono svegliato tardi, ormai erano le undici. Perdo un po’ di tempo in giro per casa, mi fanno male le articolazioni, specie il bacino sulla destra e le dita, che sento gonfie. Mia madre si lamenta che la faccio andare a dormire troppo tardi. Ma non ti ho imposto io di restare a parlare fino a tardi. Mi rado, poi perdo tempo. Telefono alla “mamma Lella”, giacchè continuavo a rimandare, ma so che lei ci tiene: gli obblighi familiari. Poi faccio la doccia: oggi mi sembra di fare tutto a rate. Dopo ancora mi siedo al PC e scrivo fin quando arriva mia sorella con famiglia al seguito e ci siamo seduti a tavola: Pasta alla Norma ( ormai è di norma ), bistecche arrostite sulla brace, insalata di cavolo rapa ( detto “trunzu” ), dolci ( io ho mangiato un magnifico Babà ), frutta,acqua, vino e caffè. Si è chiacchierato di cantanti e di fans: mio nipote che deve andare a Catania per comprare un cd di un rapper di nicchia che settimana prossima firmerà i dischi e si farà fotografare, ma se non hai comprato il suo ultimo disco “puoi cantare a finestre chiuse”, come avrebbe detto mia nonna, nel gergo attuale: “Ti attacchi!”.
Verso le tre, tutti vanno via. Restiamo sul balcone a fumare una sigaretta e parlare “dell’educazione dei giovani d’oggi”.
Mi sento stanco. Ho bisogno di sdraiarmi: mi fa male anche la spalla destra. Vado in camera, ma anziché sdraiarmi, mi metto a scrivere: ho tempo per riposare.
Verso le sette, passa mio cugino Salvo, con sua mogli Grazie e la piccola Eleonora. Si parla, consegno loro i regali, ma verso le otto e mezza passa Anna e Sebbo, per andare da Saro “A Baracca”. Piazza Carmine, sembra abbandonata all’incuria: aiuole secche di erbacce, la fontana con l’acqua verde di muschi, anche i tavolini fuori sembrano quasi abbandonati a sé stessi. Decidiamo di stare all’interno e, salvo qualche piccola modifica, sembra di fare un tuffo nel passato. Saro ci saluta con grande calore, ma anche lui è in tema con il locale e con la piazza: in abbandono. E’ brutto vedere nel volto degli altri il tempo che è passato sul nostro. Il locale è semi vuoto, forse sono più i camerieri che gli avventori. A non è capitato un cameriere davvero particolare, e Sebastiano, con sguardo eloquente mi dice: “… Ma …” Ed io in modo altrettanto eloquente: “Siii …”, nel senso che era una “pazza”, tra l’altro con qualche problema di deambulazione, ma anche sembrava un po’ tardo. Io prendo il mio solito panino di allora: hamburger con formaggio al pepe verde, Anna e Sebbo delle piadine con farciture varie, ma prima delle patatine tagliate al momento con la buccia e fritte, con l’aggiunta di sale e pepe e maionese e ketchup a parte. Intanto che chiacchieravamo dei bei vecchi tempi andati, ecco che arriva Giuseppe “Culi ‘i gomma”, che avevamo da poco nominato. Quasi non lo riconoscevo per quanto fosse cambiato: aveva messo peso e sembrava quasi gonfio in faccia, i bei capelli biondi erano ora un ammasso informe con tante striature bianche, rimaneva solo il suo modo di incespicare quando parlava, ma tutto quello che, venticinque anni fa, mi avevano fatto battere il cuore era ormai sparito. Ed è stato un sollievo sapere che gli anni e la vita riduce anche la bellezza degli altri e che mi posso ritenere fortunato ad avere vicino un uomo decisamente più bello. Dopo tutto Giuseppe non seppe mai dei miei sentimenti, anche perché è un puttaniere convinto.
Il cameriere fin troppo solerte e anche un po’ invadente si intratteneva al nostro tavolo ed io dico a mio cognato che “ha fatto colpo e che sta sera lascerà un cuore infranto”, lui incomincia a schermirsi dicendo: “Ni mancassuru schecchi a fera”. Comunque, un po’ per la birra, un po’ perche avevamo voglia di spensieratezza, abbiamo riso e chiacchierato fin verso le undici e venti. Poi siamo tornati a casa, dove mia madre era già a letto, con la televisione accesa. La saluto e vado in camera, riprendendo a leggere, fin verso la una e mezza.
Lunedì, 08 Giugno 2015.
Mi sono svegliato verso le otto, per poi tornare a letto dopo le mie solite pillole e la pipì . Mi sono alzato verso le undici e, dopo il caffè e la sigaretta, ho fatto le mie abluzioni e sono tornato a leggere fin quando è arrivata mia sorella con famiglia, per il pranzo: spiedini alla piastra, patate in insalata e fagioli piattoni conditi.
Andati via loro, mi sono rintanato in camera per terminare il libro di Vladimir Luxuria: “ Eldorado”, uno struggente racconto sulla vita di una vecchia gloria del mondo gay, una Drag Queen, che ha vissuto negli anni del nazismo, nella Berlino dei rastrellamenti, riuscendo a scampare ai campi di sterminio, cosa che non fu possibile per due sue “Compagne”. Un racconto a tratti tenero, a tratti ironico fino al sarcasmo, con una scrittura fluida e coinvolgente che ti fa sorridere o piangere o ti lascia quell’amaro in bocca o un pugno nello stomaco. Cosa fondamentale il messaggio di Orgoglio e Impegno Politico, proprio della nostra Vlady, che ha vissuto sulla propria persona le discriminazioni e la sofferenza di essere diversi dalla massa e dal pensiero comune. BRAVA Vlady!!!
Verso le cinque, passa Anna e Sebbo per andare a Giarre per risolvere la questione relativa alla macchina di mio padre, per cui abbiamo dovuto fare dichiarazione di accettazione di eredità, per poterla usare, per la modica cifra di trecentoottanta euro, a cui bisognerà aggiungere l’assicurazione e un controllo generale, prima di metterla in strada, dopo un anno di fermo.
Tornati a casa, mi sono messo al PC, aspettando che passassero a prendermi per andare da Sara Castronovo per una reunion. Sta mattina mi era arrivato un messaggio che parlava delle otto e dieci, poi uno che diceva per le otto e mezza, alla fine Katia e Saro sono passati a prendermi per le nove meno dieci. In macchina c’era una stana coppia, di cui già da subito ho dimenticato i nomi: lei evidentemente più grande di lui, entrambe appariscenti in modo raffazzonato, di quelle coppie mal assortite che nulla pare abbiano in comune, ma a cui Venere sembrava tenere molto. Non ho capito se l’amica fosse ben più che amica o cos’altro … Arrivati a casa di Sara trovo che già erano arrivati quasi tutti: c’era Maria e Nunzio, Sebby Catanzaro (detto pilurussu ), Gianfranco, sua sorella Anna, che ho faticato a ricordare ( per fortuna che Katia ha detto il suo nome e nella mia testa si è aperto un cassetto della memoria ), col marito e i due figli, c’era poi una ragazza insignificante con un aspetto dimesso che accudiva una bambina, ma che non ho riconosciuto se non dopo almeno mezz’ora, quando qualcuno ha nominato Alfredo ( e anche in questo caso sono andato a diversi anni fa, quando eravamo a casa di Katia, a Fiumenreddo, quando Alfredo era ancora fidanzato con questa inutile donna, anzi tanto inutile non è stata, visto che gli ha dato una figlia, così Alfredo, potrà annoverarsi tra i “maschi-etero-padri di famiglia”. Mia gruppo fu così mal assortito e con così poche cose in comune, con la difficoltà di trovare un argomento di conversazione. C’era tanto da mangiare: dalle tartine di vario tipo a mini panini imbottiti, salatini vari, due tipi di pizza al trancio, macedonia e gelato semifreddo. Alcuni si sono incaponiti a voler rimanere fuori in veranda, ma con la piovuta di oggi, faceva freddo. Poi ci siamo un po’ ambientati e siamo riusciti a fare un po’ di conversazione delle più innocue possibili: viaggi, scuola, cibo … Quel piccolo mostro di bambina, che non faceva altro che correre e scorrazzare tra le sedie di tutti, ha finito col vomitare e quello fu il segnale liberatorio, per cui Alfredo e sua moglie, dicono che la bambina è stanca e devono andare, a ruota Anna e famiglia, a seguire tutti gli altri. E pensare che se si fosse stati in pochi ci sarebbero stati argomenti: Gianfranco, Sebby ed io, ci saremmo potuti raccontare della nostra vita gay, oppure “la strana coppia” avrebbe potuto parlare di sé, addirittura, avremmo potuto conversare con Sara, se solo non ci fosse stata quella folla. Quando sono arrivato, c’era anche Giacomo,il figlio di Sara che chiamava via Skype dal centr’Africa, e tutti a urlare dentro un computer. Maria e Katia mi hanno regalato un libro di Carmen Pellegrino: “Cade la terra”, che si sono fatti consigliare in libreria, raccontando alla commessa ciò che loro pensano che mi piaccia o che mi interessa: temo che abbiano preso un grosso abbaglio, da quello che ho letto nella sovra copertina, ma voglio essere ottimista, mal che vada lo regalerò.
Tornato a casa, verso le indici e dieci, ho fumato una sigaretta in balcone e ho sentito Cicitto, al quale ho provato a descrivere la grande accozzaglia di vite inespresse che è stata riunita questa sera, ma qualsiasi descrizione non sarà mai esaustiva.
Mi sono fermato al computer, senza sapere se poi mettermi a leggere o dormire.
Martedì, 09 Giugno 2015.
Mi sono svegliato tardi, dopo un sogno strano, ma la cosa veramente strana che me lo ricordassi. Dopo il caffè e la sigaretta, la doccia e poi mi sono messo a leggere il nuovo libro incominciato ieri notte. La mattinata è volata velocemente e verso le undici e mezza ho chiamato Cicitto, ma già dal tono di voce nel dire “Pronto …”, mi sono reso conto che c’era un momento di crisi. Per fortuna, oggi andrà da Zecca e potrà parlare con lui, magari si rasserena un po’.
A pranzo, mia madre si lamenta di rivedere sempre le stesse cose in televisione: “… Stu Don Matteo l’amo vistu ‘na vita, ma ora ca è stati non fanu nenti …”, ma non per questo cambia canale: sembra che le sue dita sappiano formulare solo quei numeri, che sul suo telecomando ci siano solo tre tasti, ma ho sempre saputo che lei non ha mai avuto buoni rapporti con la tecnologia, riuscendo a litigare anche col tostapane. In tavola oggi, pasta con le lenticchie e sebbene le avessi chiesto di farne poca, ne ha riempito una fondina così profonda che poteva essere spacciata per una insalatiera, e per non farci mancare niente: fiori di zucca impastellati e fritti: “… Ca me li ha dati Enna, sennò si appizzano … Tu mangia, che poi a casa tua non li mangi più ”. Io, che ormai sono vittima della mia gola e della mia pigrizia, non ho più fiato per ribellarmi e mi sto trasformando in un botolo. “ Sta sera che vuoi cucinato? ”: la domanda si ripete in maniera ossessiva, e la sera si ripropone per la mattina successiva. Tutto il cibo che, maternamente riesce a far entrare nel mio corpo, deve durarmi per un anno, fin quando non torno. Se per lei l’amore passa per la gola, mi ha già amato di due chili e chissà quanto ancora “amore” mi riverserà nei piatti e nello stomaco, che andrà a depositarsi nella pancia, facendo piangere la mia bilancia … Ma sicuramente “con Tanto amore”.
Il pomeriggio è passato a leggere ed ero quasi a buon punto. Ha piovuto ancora, con un corredo di tuoni e lampi, da far paura, risoltosi in un acquazzone di due ore, quando ho saputo che zio Pippo, che già da giorni lamentava dolore alla fossa iliaca di destra è stato portato in ospedale, perché quel cretino del suo medico gli ha detto che “ ha aria nella pancia e è meglio portarlo in pronto soccorso“: un diagnosi ineccepibile e altamente professionale, che tiene conto di tutta la sintomatologia e dell’anamnesi remota e prossima, nonché dell’evidenza clinica. Odio quell’uomo!!! Ad accompagnarlo al Cannizzaro è stato mio cugino Salvo e noi siamo stati in attesa, con lunghi giri di telefonate. Intanto, proprio sul telefono, mi arrivano, accompagnati da commenti personalizzati, video porno, dal numero di mio cognato. Ovviamente, si trattava di un virus che aveva invaso il suo telefonino, ma al solo pensiero che sarebbero arrivati a tutti i numeri di telefono possessori di facebook che aveva in rubrica, mi veniva veramente da ridere: Avrei voluto vedere le facce di mia cugina Cinzia, iper cattolica, che mette in bacheca solo preghiere e immagini sacre, o tutti i fornitori del bar o i medici. Secondo me, mio cognato avrà avuto un momento difficile. Io stesso mesi fa ho subito un virus sul cellulare, trovandomi a dover resettare e poi a scaricare un antivirus. E’ stato un po’ noioso, dover cancellare tutti quei video che, tra l’altro, arrivavano in serie di dieci, tutti uguali, appena avevi cancellato quelli te ne arrivava un’altra raffica. Nonostante ciò, sono riuscito a finire il libro: “Argento vivo” di Marco Malvaldi, una simpatica commedia degli equivoci, che coinvolge quattro gruppi di persone, in una girandola di contrattempi e confusioni, in un intreccio divertente e coinvolgente, con un simpatico lieto fine.
In serata, è passata Anna e Sebastiano, di ritorno dall’assicuratore, dove purtroppo non hanno combinato molto: tutto rimandato, per “un guasto sul sistema”. E’ proprio la giornata della telematica!
Restiamo a parlare, partendo dalla scoperta della morte di Santo La Rosa, detto “Santazzu Muzzica Santa”, che hanno trovato solo dopo due giorni del decesso: era ormai una sorta di barbone alcolizzato, che rifiutava il mondo, ma a quanto pare, il mondo si è dimenticato di lui. Da qui si è partiti per un escursus tra gli alberi genealogici di tutto il quartiere e oltre, giungendo in tutti gli angoli e recessi del paese, tra malattie psichiatriche vissute come originalità che hanno avuto risvolti tragici, a violenze domestiche e gesti di grande altruismo. Insomma, una sequela di nomi e soprannomi (“Bastiano ‘cca nnocca” “Nuccio delle nuvole blu”, “Giuvanni Fafai”, …), con relativi genitori e parenti, con indicazioni stradali e geografiche, che non hanno fatto altro che confondermi le idee ed io che continuavo a chiedere: “ … Ma di che state parlando? …”, che sarebbe stato meglio non dire, perché la sequela di noni si sommava, con altre specifiche di case e vicini di casa e tempistiche e luoghi che ormai non ci sono più. Ero stanco solo a sentire!
Andati via loro, mia madre mette in tavola: pancotto, alla maniera di mia madre, con poco pomodoro, uova a stracciatella, formaggio e ovviamente pane. Ancora mi approccio ad un pentolone di pane profumato e fumante, che mi sono sentito un tacchino ripieno.
Ormai alle undici sappiamo che zio Pippo ha avuto una diagnosi degna di questo nome: “Ernia inguinale destra, a cui si aggiunge sciatalgia destra e artrosi della colonna … ed ovviamente ottantatre anni”. Gli hanno fatto un’ecografia addominale, degli esami ematici e gli hanno praticato un antidolorifico.
Dopo questa notizia, siamo rimasti a parlare fino alla una, guardando la TV. Poi sono tornato in camera al leggere fin verso le tre, iniziando un nuovo libro: questa volta tocca a Camilleri.
Mercoledì, 10 Giugno 2015.
Mi sono svegliato verso le sei, sia per fare la pipì per il mal di stomaco. Prendo i miei farmaci e torna a letto, dormendo fin verso le undici e dieci. Soliti rituali del “mattino” e mi sono messo a scrivere. Il tempo è grigio e ricomincia a tuonare, sull’Etna è tutto imbiancato: forse ha nevicato, ma mia madre è convinta che si tratti di grandine, e se così fosse, deve averne fatte davvero tante.
Per la una e un quarto arrivano i ragazzi per il pranzo: oggi lasagne.
Finito di pranzare, mi sono messo a leggere, quando è arrivato mio nipote, che cercava consigli su un possibile fidanzamento, ma dopo un po’ suonano al campanello: “ Si, chi è?”. “Rita”. “Chi è?”. “Rita sono”. Non conosco chi possa essere e così chiamo mia madre, dicendo che c’è una certa Rita che la cerca. Anche mia madre non sa chi sia, ma già avevo aperto e stava salendo le scale una signora grassottella con un bambino. E questa mi dice: “Ciao, non ti ricordi di me?”. Ed io: “No, mi dispiace, ma non mi ricordo, forse una vaga idea del viso, ma non ricordo”. “Rita Patanè, quella che abita là in fondo …”. Io proprio non ne ho memoria. Poi mia madre mi dice che è “Rita di Maria ‘i Camilla”, ma anche così ho grosse difficoltà. Questa con il suo bambino, con evidenti problemi comportamentali, quasi autistici, si trattiene a parlare,come se ci fossimo frequentati da sempre, mentre quel “piccolo mostro”, continuava a far danni per casa. Io ho già una vaga repulsione per i bambini maleducati, ma ancor di più, per le madri che non sanno quando i loro figli sono causa di disastri e si tolgono gentilmente dai coglioni. Quando dopo un’ora si decide ad andarsene felice di avermi rivisto, dopo trent’anni di assoluta meravigliosa indifferenza, in cui non avevo la ben che minima cognizione della sua esistenza, ci accorgiamo che il bambino ha chiuso la porta della veranda e non sappiamo dove abbia buttato la chiave. E mi vien da chiedere: ma certa gente deve per forza scassare la minchia a qualcuno almeno una volta al giorno, oppure è solo una questione fortuita che abbia scelto proprio noi per questo evento straordinario?
Il resto della serata passa veloce: cena, TV e poi in camera a leggere. Così ho finito il libro di Camilleri “Inseguendo un’Ombra”: un romanzo biografico o una biografia romanzata su un discusso personaggio siciliano, con origini ebraiche, che si converte cristiano per poi combinarne davvero tante. Ottima scrittura, ma non mi ha comunque soddisfatto.
Giovedì, 11 Giugno 2015.
Questa notte ho stentato ad addormentarmi e alla fine mi sono alzato verso le dieci e mezzo. Avevamo da poco preso il caffè, che suona la “Zia” Enna, e si è fermata a parlare ancora della morte del marito e ci ha mostrato le foto della nipotina. Intanto che stava andando via, ormai le undici e venti, suona ancora il campanello ed è Tiziana, con il bambino ed è rimasta a parlare fin verso la una. Mia madre, ancora in vestaglia, doveva preparasi per andare a fare l’Eco Tiroide, così si mangia rapidamente, lei si prepara e mia sorella passa a prenderla verso le tre e venti. Rimasto solo a casa, mi sono messo a letto per leggere, ma mi sono addormentato pesantemente.
Mi sono svegliato verso le cinque e mi sono messo al PC. Un pomeriggio volato senza far nulla. Ma ricominciano le visite e il via vai. Prima telefona mia nipote per chiedere se dovessi usare la macchina nel pomeriggio, poi passa mio cugino Salvo, che rimane a parlare a lungo, fin quando arrivano le mie nipoti per la macchina, ma non sanno tirarla fuori dallo scivolo del garage e a questo ci pensa Salvo. Più tardi, ritorna mia madre e, finalmente, riesco ad infilarmi in doccia. Il resto della serata è stato abbastanza tranquillo: un po’ di TV, cena a base di toast, quattro chiacchiere e poi verso le dodici e mezza in camera.
Oggi è stata una giornata strana: tante visite, ciascuna con una storia da raccontare, con uno sfogo di cui liberarsi e tu a dover dare consigli e conforto, a volte cercare per loro una via di fuga per le loro paure. Ci sono giorni in cui pensi: “Non ho fatto niente”, e invece hai tanto parlato, hai dato tanto senza rendertene conto, magari solo con un silenzio o un abbraccio.
Stanco, ma in qualche modo, soddisfatto. In fondo, non è stata una giornata sprecata!
Venerdì, 12 Giugno 2015.
Sta mattina mi sono svegliato verso le neve meno un quarto. Già che ero sveglio, mi sono alzato, mi sono preperato e sono andato in banca per pagare le tasse della casa (ICI, TASI,TARSI o che diavolo sia). Mi è sembrato strano entrare nel Credito Valtellinese in Sicilia. Avevo davanti a me solo tre persone, con due sportelli attivi, ma ho notato che i tempi erano sensibili al parallelo: tutto molto slow e senza ansie o premure, sia nei dipendenti che nei clienti. Finito di pagare, mi sono messo in macchina e sono andato a Giarre da Gaetano per tagliare i capelli, nel solito rituale estivo. Nonostante fossero solo le dieci e un quarto, c’erano già tante persone in attesa, ma anche qui nessuno che si scomponesse per l’attesa. Quando è toccato a me, anche se non ho capito quale criterio abbiano scelto per chiamare i clienti, mi siedo e Gaetano, invece, si siede sui divanetti a leggere il giornale ed io ad aspettare. Poi con i tempi relativi incomincia a tagliare, ma tutto intervallato da lunghe chiacchiere e discussioni: sapendo che anch’io, come suo figlio, sono infermiere, si dilunga in considerazioni e commenti sugli stipendi, sulla fatica dei turni, sul fatto che suo figlio vorrebbe lasciare la psichiatria del “Fate Bene Fratelli” di Milano, per avvicinarsi a casa, ma non ci sono possibilità di mobilità o trasferimenti. Un taglio fatto bene, ma con tempi rilassati, dopotutto è questo il bello di andare dal parrucchiere: rilassarsi.
Tornato a Santa Venerina, passo dal bar di mio cognato e qui trovo Sara Castronovo che fa colazione con la granita, alle undici e un quarto. Saluto la signora Graziella, che mi invita a pranzo per domenica, dicendo che preparerà apposta per me i “Pansotti alla domenicana”, come rifiutare. Saluto Maria e Irene, che sono al banco e vado in laboratorio, dove c’è Orazio, Salvo , Bebbo e Anna. Il tempo di quattro chiacchiere e vado a casa, per poi risalire a portare le lenticchie che mia madre ha cotto per loro.
A casa, mia madre è vistosamente stanca, ma egualmente aveva fatto un po’ di pulizie, aveva già preparato i funghi da fare con la pasta e naturalmente le lenticchie che ho portato ad Anna. Giro di telefonate: prima a zia Tina, che non fa altro che lamentarsi, e poi a zia Maria che al contrario sminuisce tutti i suoi acciacchi, anche se si sente chiaramente che sia davvero stanca e sfiduciata.
Dopo pranzo, mi metto sul letto a leggere, ma mi sono appisolato. Verso le cinque e mezza, mi chiama mia sorella, per andare ad Acireale. Prima tappa, il ritiro dell’Eco Tiroide di mia madre e qui, alla reception, ci sono due starni tipi, tra il viscido e l’arrogante: lei sull’anoressico andante, e lui un panzerotto scazzato e mancino che non si scomoderebbe dalla poltrona neanche se lo minacciassero. Poi, Anna vuole assolutamente farmi un regalo, anche se io continuo a protestare che non è necessario. Vuole andare in un nuovo negozio vicino Corso Umberto, ma continua a dare indicazioni differenti e confuse a Sebbo, che alla fine ci porta a destinazione. Sulla porta c’è scritto che se la porta fosse chiusa di rivolgersi all’altra entrata del negozio donna. Dopo essere rimasta a lungo, quasi interdetta da questa “insulsa” affermazione, decide di andare all’altro ingresso, ma la vecchia commessa (o forse era la proprietaria, inutile chiedere per attaccare un’inutile conversazione) ci porta al primo ingrasso che adesso risultava aperto. Ci accoglie un giovane, dall’aspetto fricchettone, che incomincia ad elogiare la loro merce, dicendo di quanto sia tutto made in italy, della qualità e del design, ma io controllo i prezzi e mi accorgo che sono sicuramente over budget. Mia sorella, intanto, presa dal “sacro fuoco dello shopping”, è decisa al fatto che io acquisti una giacca, o una camicia o se proprio una maglietta, ma io non vedevo nulla che potesse interessarmi, men che meno dopo aver visto i prezzi: una maglietta alquanto banale costava quarantasette euro, che anche scontata del trenta per cento, era per me troppo cara in rapporto alla qualità e al “design made in italy”. Già stavo grondando di sudore, come ogni volta quando mi innervosisco, cercando di far capire a mia sorella che avremmo potuto trovare di meglio e miglio prezzo. Alla fine si decide per andare da Ben Veste, dove altre volte abbiamo trovato cose carine a prezzi accettabili. Qui incomincia la “la sindrome da frenesia da shopping compulsivo” che coglie i Tripoli in alcune fasi della vita. Io dal canto mio dovevo solo comprare un una cosa piccola per Cicitto ed ho anche risolto rapidamente, ma per mia sorella era solo l’inizio … : dalle giacche “strizzate e sovra-culo” ai giubbotti fiorati e super sottili, dai pantaloni ultra slim a magliette super scollate, tutto era acquistabile e tutto mi sarebbe stato bene: “… Non puoi credere che figurino che ti fa …” e rivolgendosi al commesso (magro, barbuto, tatuato e vestito di nero) gli chiede se non sia vero. Cosa poteva dire quel povero ragazzo che doveva vendere, intanto che cercava una taglia cinquantasei per me? Alla fine, ma ancora non paga, si accontenta di aver comprato: un paio di pantaloni, un maglioncino leggero, una maglietta (uguale,ma di colore diverso anche per Cicitto), una cintura e una sciar pettina. Ho cercato di contenere la spesa scegliendo capi meno costosi, ma lei insisteva che a Natale e per il compleanno io non ci sono, che le sue cognate ricevono sempre regali ad ogni occasione e che era giusto così. Il tutto alla “modica” cifra di novantanove euro. E’ una pazza!!!
Tornati a casa, le avrebbe voluto andare a mangiare fuori, ma io non mi sentivo. Così, lei si è ritirata un po’ delusa, con l’idea di andare a cena fuori domani sera.
Io sono rimasto a casa ed ho cenato con carpaccio, rucola e grana, e spiluccando fettine di pane a mò di dolce. La serata è volata alla TV, poi a letto a leggere. Domani ci sono tante cose da fare.
Sabato, 13 Giugno 2015.
Mi sono svegliato verso le si e mezza e non riuscivo a riprendere sonno. Quando mi sono addormentato, è suonata la sveglia: erano le nove. Mi preparo e, stranamente, mia madre è già sveglia e ha già fritto anche le melanzane e mi dice: “Ma tu sei passato in camera e mi hai detto: mamma svegliati?”. Assolutamente no. Allora lei si convince d’averlo sognato. Io penso che fosse tanta l’ansia che dovevamo fare tante cose in mattinata che si è auto chiamata dal sonno. Ma bene anche così.
Per le nove e mezza siamo in macchina alla volta del cimitero, qui compra i fiori e poi andiamo alla tomba di mia padre. Come ogni volta non riesco a immedesimarmi nel figlio dolente, non riesco a vedere quella lapide come il luogo in cui sia mio padre e tutti quei rituali di pietas, come baciare la foto, parlare alla lapide, accomodare i fiori, mi sembrano vuoti e senza significato. Forse sono io ad essere sbagliato, forse ho solo la coscienza che mio padre sia altrove o forse è ovunque e sempre con me.
A pranzo ci sono i ragazzi, Anna e Bebbo. Mia madre ha preparato: pasta alla Norma, cotolette di carne e melanzane a cotolette,ripiene di formaggio. Abbiamo chiacchierato e quando loro sono andati a casa, mi sono messo sul letto a spulciare internet e a leggere, ma mi ha colto la sonnolenza post prandiale.
Verso le sette andiamo a Mascali da Annamaria, per poter salutare zia Maria, che nei giorni scorsi ha dovuto fare una procedura invasiva. Siamo stati un’ora circa a chiacchierare, poi abbiamo salutato Fabio e Salvatore e siamo venuti a casa. Ci siamo accordati che sarebbero passati a prendermi fra mezz’ora e, quasi puntuali, siamo andati a Scillichenti, una frazione di Acireale, vicino al mare. Il ristorante si chiama “Coltello e forchetta” , una sorta di casa di campagna che è stata restaurata, puntando su uno stile minimal, vagamente shabby chic, ma ad un occhio attento, da assiduo frequentatore Ikea quale io sono, si accorge che si è forse più badato al risparmio che al design. Anna ed io decidiamo per la pizza, mentre Sebbo per in panino con “hamburger veggie”. La prova impasto e cottura non sono state superate: la pizza risultava cruda e insipida ed ho dovuto far aggiungere la mozzarella che non c’era da menu, il vino sembrava di bassa qualità, il servizio pretenzioso, visto che le tovaglie e i tovaglioli erano di carta, a tutto ciò si è aggiunto il trio folk in abiti da farsa siciliana, con chitarra, tamburello e “quartara”, che cantavano “Ciuri ciuri”.
Siamo venuti via verso le undici. A casa sono rimasto a guardare un po’ di TV e fare quattro chiacchiere con mia madre. Poi a letto a leggere, fin quasi alle tre.
Domenica, 14 Giugno 2015.
Sta notte ho dormito male, sia per l’afa che per il dolore all’ala iliaca destra, che coinvolgeva tutto il gluteo. Avevo puntato la sveglia per le nove, ma già alle otto meno cinque mi ero alzato, andando in giro per casa in cerca di un Toradol, ma niente. Mi sono rasato, fatto la doccia e sono salito al bar, per chiedere ad Anna se avesse una fiala da farmi, per fortuna, l’aveva la signora Graziella che mi ha fatto l’iniezione. Ora, in attesa del salvifico effetto dell’antidolorifico, ho potuto gustare la prima e ultima granita dell’anno: fragola e panna sia sopra che sotto e la brioche ancora calda. Sono passato poi dalla piazza, per comprare la “Calia”: ceci e semi di zucca abbrustoliti con aggiunta delle arachidi tostate con la buccia. Torno a casa e mi metto al PC.
Verso le dodici e mezza andiamo al bar di Sebbo e qui aspettiamo che chiudessero per pranzare. C’erano: Venere con Saro e sua figlia, Sara Castronovo, Maria con Nunzio, Il Signor Lanza con la Signora Graziella e ovviamente Anna e Sebbo con i ragazzi, mia madre ed io. E verso le due inizia la mattanza di cibo: pansotti alla domenicana, rollè di pollo con piselli e fughi, polpettine con patate funghi e piselli, insalata, dolci e “calia”. Alla fine eravamo talmente pieni che non si riusciva a muoverci. Almeno io, ero così pieno da star male. Ci siamo trattenuti a parlare fin verso le quattro e mezza, quando siamo scesi a casa. Ho telefonato a Cicitto, continuando a ripetere, come nella parodia di “Made in Sud”: “Io mi sento maleee …”.
Mi sono messo al letto con l’idea di leggere, ma sapevo benissimo, che avrei finito per addormentarmi. E così né stato.
Verso le sei è arrivato mio cugino Salvo con sua moglie e la bambina e poi mia zia Tina. Siamo rimasti a parlare fin verso le dieci, quando sono andati via ed io ho cenato con due arancini. Mia madre ha visto “Il Segreto” ed io “Don Camillo”, e poi insieme siamo rimasti a vedere “Il Colore Viola”.
Ormai tardi: quasi le due, siamo andati in camera. Domani è il giorno del ritorno e mia madre tornerà a dormire da sola in casa, tornerà a chiudere le porte e le finestre, forse chiuderà anche le porte del cuore, rintana dosi nella solitudine del suo dolore. Non posso restare ancora e non lo voglio nemmeno: ciascuno deve poter vivere la propria vita e la mia è altrove con il mio amore, con il mio lavoro, con altre persone che non sono quei “vecchi” conoscenti che sono qui, con i quali non ho più nulla da condividere. Mi dispiace per mia madre e per mia sorella, ma non posso rimanere imprigionato nelle loro vite: ho la necessità di vivere la mia!
Ora si va a letto, sperando di dormire. Domani si torna a casa!
Lunedì, 15 Giugno 2015.
Sta mattina mi sono svegliato verso le nove, ma dopo essere stato in bagno e preso le mia pillole, sono tornato a letto e credo d’aver fatto un sogno erotico. Mi sono alzato verso le dieci e ancora ero in uno stato di agitazione genitale. Dopo il caffè e la doccia, ho iniziato preparare la valigia e, da subito, mi sono reso conto che il peso sarà un problema. Sono andato a salutare zia Tina, che mi ha trattenuto parlando , come sempre, di malattie e drammi, intanto Rosetta e sua figlia Fabiana erano a casa mia ad aspettarmi e, quando sono arrivato, si è fermata a raccontare tutte le sue sborronate, senza considerare che sua madre le avesse chiesto di fare una commissione. Va via verso le dodici e cinquanta, pranziamo soli, mia madre ed io e poi mi distendo sul letto a pisolare, cercando ancora di digerire i pasti di ieri.
Anna e Sebbo sono passati a prendermi verso le quattro, e ancora devo aggiungere cose nella valigia non perché Cicitto mi abbia regalato un mega bagaglio, io debba riempirlo fino a non poterlo chiudere.
Il momento del distacco, ancora una volta, è stato per mia madre un lungo attimo difficile: quasi non volesse più staccarsi da me, lunghi baci sulle guance e lacrime ingoiate in silenzio. Da sta sera, ricalerà il silenzio in casa, rotto solo dalla televisione che, più che fare compagnia, serve a fare rumore, per non sentire l’enorme vuoto del silenzio, che tutto pervade. Ma ora è l’ora di partire, mani che si muovono in un interminabile saluto e voci inudibili oltre i finestrini che rimandano alla prossima volta, al prossimo anno: “Sempre che ci sia, il prossimo anno”, continua a ripetere mia madre da giorni.
Passiamo da casa di Anna, per recuperare le ragazze, Salvo mi aveva già salutato ieri sera. Federica deve andare al centro assistenza Apple, perché il suo telefono è andato in panne.
Anna decide che a guidare sia Irene, e senza troppi problemi arriviamo in aeroporto. Qui, nell’area partenze, non c’era posto dove lasciare la macchina, quindi, “ovviamente”, posteggia nell’unico spazio libero: sulle strisce. “Tanto, stiamo poco, il tempo di scendere la valigia e salutare …”. Ma Irene ha sete, quindi Federica si presta per andare a comprare una bottiglia d’acqua, Sebbo che voleva entrare in aeroporto è rimasto a fare compagnia a Irene e Anna mi ha accompagnato a fare il check in elettronico e poi in fila per consegnare il bagaglio. Qui la fila sembrava non muoversi più, a causa di un gruppo di giovani sub che avevano bagagli enormi e ultra pesanti e facevano perdere un sacco di tempo. Quindi dico ad Anna che forse è meglio che vadano e ci salutiamo. Arrivato il mio turno, deposito la valigia sul tappeto rotante per la pesa e la hostess, mi dice: “Non me lo faccia più”, ma io non capisco e lei con fare accondiscendente, mi indica il display in cui compare un bel venticinque virgola otto chili. Cerco di discolparmi dicendo che mia madre ha aggiunto cose fino all’ultimo momento e lei lo capisce perché è stata anche lei lontana dalla famiglia, ma altri avrebbero fatto storie. Per fortuna, il resto del percorso ad ostacoli, fatto di transenne, a mò di labirinto e di code, per accedere al controllo dei metal detector è stato veloce, ma qui arriva il solito contrattempo dell’allarme che suona al mio passaggio. Avevo già tolto, preventivamente, orologio, anello, cintura e avevo messo il PC nel contenitore, ma nonostante ciò suonava. Mi fanno togliere le scarpe, ma io so che non era per quello, ripasso e suona, e la guardia mi chiede se avessi qualcos’altro in tasca. Alla fine, addiviene che forse sfioro l’arco del metal detector, ed io penso: allora è vero sono davvero ingrassato troppo. Già stamattina avevo avuto la sentenza della bilancia: novantacinque chili, un chilo dei quali guadagnato in un solo giorno (chissà perché si dica che i chili si guadagnano, quando io in questo non vedo nessun beneficio), Sebbo non si capacita come possa aver mangiato un chilo di “roba” in un solo pasto: “… E poi c’è anche lo smaltimento, non è che rimane tutto addosso …”. Lui, purtroppo non si rende conto della enorme quantità di “roba” che si possa mettere in tavola e quindi nella pancia in uno di quei pranzi luculliani domenicali.
Finalmente, oltre i cancelli, vado a comprare una bottiglia d’acqua e poi mi sistemo con il PC in mano. Ci imbarcano abbastanza in orario, ma arrivati con il pulman sotto l’aereo, siamo costretti ad aspettare a salire, perché sul nostro volo c’è un uomo sotto scorta. Qualcuno dice che almeno saremo al sicuro, altri (viva l’ottimismo) che rischiavamo di subire un attentato per far fuori il delinquente. Io, onestamente, me ne frego, non vedo come possa cambiare il mio viaggio avere quattro uomini della scorta ad un pregiudicato … viva l’incoscienza.
Arrivato al mio posto, mi sistemo vicino al finestrino. Accanto a me c’è una coppia, un po’ “oratorio”: lei piccola, con lunghi capelli neri e lineamenti quasi latinos, lui “longo a ‘mmatula”, con una sacca che sembrava di quelle termiche per i picnic per bambini.
Soliti gesti delle hostess per indicare le uscite di emergenza e l’uso delle maschere e dei salvagente e già la donna incomincia a tenere la mano del marito, l’aereo si avvia verso la pista di decollo e vedo lei che armeggia con qualcosa sotto il foulard che ha al collo, l’aereo incomincia a rollare sulla pista e lei comincia a farsi le croci e baciare il crocefisso che ora riesco a distinguere sotto il foulard. Io, dal canto mio, sto leggendo il giornale pubblicitario Alitalia, cercando di non buttarla fuori da finestrino. Quando, finalmente in volo, dicono che possiamo usare gli apparecchi elettronici, prendo il PC e riprendo a scrivere e vedo che “Miss Crocefisso” sta sbirciando sulla pagina con la scusa di guardare dal finestrino. Quando passa l’hostess per il meraviglioso spuntino, io chiedo un po’ di Cola e salatini (quindici grammi di mini torlillas di polenta), mentre la signora e il marito rifiutano anche l’acqua. Poi tirano fuori un sacchetto di arachidi, ed io mi sono chiesto dove abbiano buttato le bucce.
Quando siamo arrivati nella fase di discesa, quindi ancora molto lontani dall’atterraggio, lei riprende con le croci, alternando con lunghe strette di mano al marito, che sembrava stesse davvero soffrendo, ma con spirito di sacrificio ecumenico, nel silenzio dell’amore coniugale. Scendendo ancora, la voce dell’hostess chiede di spegnere gli apparecchi elettronici, di chiudere il tavolino e mettere dritto lo schienale, allora spengo il PC e prendo il libro “Global Gay” di Frédéric Martel, al che “Nostra Signora delle Croci” ricomincia con frenesia a “incrociarsi” e baciare il povero ciondolo appeso al collo, intensificando quando avverte che ormai stavamo per atterrare. Non ne potevo più!!!
Disgraziatamente, l’uscita di sbarco era solo quella anteriore, perché avremmo utilizzato il tunnel, quindi essendo al posto ventidue, abbiamo dovuto aspettare che tutti quelli avanti si smuovessero e raccattando il bagaglio a mano nelle cappelliere. Ne approfitto per fare i giri di telefonate per avvertire dell’arrivo: Cicitto è ancora in prossimità di Agrate, ma lo rassicuro che dovendo ancora scendere e poi aspettare il bagaglio lui avrebbe avuto tutto il tempo d’arrivare.
Come una lunga tortura cinese, non riesco a togliermi da davanti la “coppia dell’oratorio”, che a vederli in piedi erano ancora più strani, con le loro altezze spropositate, in cui lui sembrava il padre e lei la bambina, ma il fastidio maggiore era dovuto al fatto che non si toglievano dalle palle, anzi sembrava che facessero a posta a sbandare ora da una parte ora dall’altra, ora allontanandosi ora avvicinandosi l’uno all’altra, quasi fossero ubriachi o affetti da labirintite. Quando riesco a superarli e seminarli, imboccando la scala mobile e scendendo i gradini due alla volta per non farmi raggiungere, arrivo al tapis roulant, dove c’è un gran assembramento, ma non c’è il nome del mio volo, così faccio il giro, fino in fondo, ma nulla, quando mi riavvicino alla postazione “uno”, dove non compare il nome del mio volo, vedo una valigia che mi dico somigli alla mia, ma è troppo presto. Comunque decido di prenderla e verificarne il nome, male che vada la rimetto sul rullo. Invece è proprio la mia e, con stupore, mi avvio verso l’uscita, continuamente fermato dai tassisti che si proponevano di accompagnarmi.
Fuori dagli “arrivi”, richiamo Cicitto, ma non è ancora arrivato. Fuori il tempo è nero, freddo, umido e piove: cazzo ora che in Sicilia stava mettendosi al meglio, arriva qui e mi ritrovo alla pioggia. Meno male che avevo messo il giubbotto nello zaino del computer, e pensare che mia sorella voleva che lo lasciassi in valigia: “Tanto se ne avessi bisogno lo puoi tirare fuori”. Sì, le ultime parole famose: avrei proprio voluto vedere come aprire quella cassaforte piena rasa che se ci avessi provato sarebbero esplosi dappertutto per l’aeroporto ogni ben di dio, altro che trovare il giubbotto.
Finalmente vedo la macchina di Cicitto e mi dirigo verso il punto in cui si è fermato e chi ti rivedo …? “I Figli dell’Oratorio”. Non ci posso credere: pare mi stiano inseguendo.
Ora sono in macchina, ci scambiamo un bacio e ci avviamo verso la tangenziale, raccontandoci un po’ di questi giorni vissuti lontani. Arrivati a casa, disfo la valigia e preparo per la cena.
Ora sono davvero tornato! Avevo bisogno di un po’ di ferie, ma ora ho bisogno di tornare ai miei ritmi, alla mia casa, alle mie cose, al mio Amore e, anche se questo a malincuore, al mio lavoro.
Amore, ora sono a casa, di nuovo insieme!
giovedì, settembre 23, 2010
Il Gatto...
Rientro a casa stanco, ancora una volta …
Stanco per una giornata di lavoro, stanco per alcuni giorni in cui ci sono state delle tensioni, piccoli problemi di vita quotidiana …
Accendo la televisione, tra le tante cose c’è un programma in cui una coppia in crisi si mette in discussione con l’aiuto di un sessuologo. Ma la cosa che mi ha colpito di più è stato l’acquario, che questa coppia aveva in casa. Lui se ne prendeva cura e lei era estremamente succube.
Una domanda mi è sorta spontanea: “Lui viveva il rapporto come un acquario?”
Un rapporto di controllo. Tutto trasparente, ma distante, come sotto un vetro: piccoli animaletti da gestire, da nutrire, di cui gioire, ma un rapporto a distanza, di superiorità, chiuso in una bolla, da cui prendere piacere, ma a cui non chiedere altro che essere belli, adattarsi all’ambiente limitato costruito ad hoc, e silenziosi. I pesci non parlano!
Non sono un amante di animali da appartamento, un po’ per pigrizia, un po’ perché non ho effettivamente il tempo per seguirli, ma non credo proprio che terrei un acquario.
Ho bisogno di interagire, di sentire ed essere sentito, di poter accarezzare e magari di sentire una piccola lingua rasposa che mi lecchi le dita, un gatto, magari, che sia libero di vivere ed essere ciò che è: essere vivente libero ed indipendente , che decide di darti amore solo se te lo meriti, che ha un rapporto con te perché lo vuole, altrimenti va altrove, libero e liberando te stesso.
Mi rendo conto che se dovessi riconoscermi in un animale, l’unico sarebbe il gatto.
Io un gatto randagio, sempre in cerca di una tana da chiamare casa, alla ricerca di un equilibrio sul cornicione, sempre pronto a vivere un’altra delle mie sette vite, senza alcun guinzaglio, ma pronto ad acciambellarmi sulle ginocchia di chi mi da una carezza senza la volontà di legarmi ad una catena.
Il gatto che è in me mi porta ad essere insofferente di soffiare, arruffando il pelo, di tirare fuori le unghie e di guardare il mondo sempre di sguincio, vivendo di notte, facendo le fusa, strusciandomi sulle gambe di chi mi sta simpatico e segnando il territorio, pisciando sulle porte dove voglio tornare.
Forse un animale dispettoso ma onesto, sincero, capace di vegliare quando gli altri dormono per assicurare la loro serenità, capace di miagolare per tutta la notte alla luna per il simile di cui si è innamorati e di leccarsi le ferite dopo gli scontri furiosi di passione.
Sì! Sarei davvero un bel gatto, un magnifico gatto, che, forse, anche gli egiziani avrebbero adorato, coccolato in templi sulle rive fresche del Nilo, tra palme da dattero e ibis bianchissimi, che si crogiola dei profumi degli incensi e si nutre del latte delle bianche mucche dalle corna a forma di luna crescente.
Magari sarei solo il gatto che si arrampica sul davanzale e lascia il segno del muso sul vetro, magari sarei il gatto del film di Audrey Hepburn in “Colazione da Tiffany”, senza un nome vero, ma con il vero amore.
Sì! Sarei davvero un bel gatto! E non chiedo altro che di essere accarezzato, stando sulle ginocchia del mio vero amore …
Ed ora vado a fare le fusa sotto le coperte. Vostro, Salvo.
lunedì, luglio 05, 2010
Viaggio a ritroso …
Viaggio a ritroso …
Vi avverto subito che la cosa è lunga.
Mettetevi comodi, prendetevi il tempo che vi occorre e apprestatevi a leggere il resoconto di questa vacanza. Altrimenti organizzatevi a leggerla a puntate.
Inizio …
Quando si dice una vacanza di merda …
Sabato mattina, sveglia alle sette e mezzo. Un po’ assonnato, preparo le ultime cose, faccio la doccia e poi Cicitto mi accompagna in stazione … e già a Cernusco incomincio a sentire premere nell’intestino, ma come fare … Te la tieni!
Giunto a Milano, la solita trafila: dalla Garibaldi, in Metro, fino alla Centrale, quindi attesa che arrivi il bus navetta per Linate … ed anche qui l’intestino che preme. Cerchi di camminare a piccoli passi, la sigaretta che stimola ancora di più la peristalsi. Insomma, una tortura!
Arrivo in aeroporto con notevole anticipo per il check-in: devo aspettare, senza poter lasciare la valigia da nessuna parte, l’intestino che preme, ma andare in bagno vorrebbe dire entrare con valigia, sacca per il computer e contenitore refrigerato per i farmaci. Impossibile!
Cerco un posticino tranquillo per sedermi in punta di sedia a leggere il mio “Montalbano”, ma era una tortura: continuavo a muovermi poggiando ora su un gluteo ora sull’altro per non gravare sullo sfintere ormai sfinito. Per fortuna, avevo scelto una lettura divertente che mi permetteva di distrarre l’attenzione dal problema impellente.
Alle dodici e mezzo mi muovo alla volta del check-in e qui mi fanno delle storie per i farmaci ed il loro contenitore con le mattonelle refrigeranti … per fortuna il santo protettore dei fancazzisti mi ha assistito e piuttosto che recuperare la valigia per farmeli sistemare dentro, si mettono d’accordo tra loro e tutto diventa possibile. C’è da dire che io mi sarei battuto fino allo stremo del mio povero sfintere compresso dall’attacco delle feci impellenti per non caricare i miei farmaci nella stiva con i bagagli: in caso di smarrimento del bagaglio avrei potuto fare a meno delle mutande ma non della mia chemioterapia.
Finalmente Libero!!!
Corriamo in bagno! Anche perché, stranamente era come se il mio intestino avesse avvertito il “via libera” e cominciasse a scalpitare come non mai. Trovato il bagno, poggiate tutte le borse, grave decisione: come sedersi su quel water sconosciuto?! Ma la premura dei miei visceri ha deciso per me e mi siedo e mi libero…
“Sempre sia benedetto l’inventore del gabinetto” AMEN!!!
Ora leggero e sereno mi approssimo al cancello d’imbarco.
Per passare il check-point devo togliere l’orologio, l’anello, la cintura, mettere il cellulare nella borsa, togliere dalla borsa il computer, togliere il giubbotto, tenere in mano il foglio d’imbarco … insomma un lavoro da vero direttore d’eventi, a metà strada tra l’equilibrista e l’archivista.
Ma non basta! Passato il metaldetector comincia a suonare. “Torni in dietro … Si tolga le scarpe … se vuole ci sono dei calzari monouso … ” . Ma chi se ne frega dei calzari! Fatemi passare e finiamola così!
Tante facce, tante famiglie con bambini e, anche ad uno sguardo superficiale, ti accorgi di chi siamo i siciliani e chi no. Non è nemmeno necessario sentirne l’inflessione: basta solo la faccia. I lineamenti tipici dei miei conterranei, l’attaccatura dei capelli, la stessa postura.
Per non parlare della concentrazione di “PAZZE” che ho cominciato a trovare già sul treno del mattino: sembrava una diaspora del 12 Giugno, un avanzo del Pride, disperso tra Brianza e Milanese, alla ricerca di qualche orgoglio sopito.
L’aereo parte con oltre mezz’ora di ritardo.
Io siedo vicino ad un finestrino di coda, accanto a me una coppia leccatissima, che tira fuori da una fusta del free-shop una catasta di giornali di gossip lei di economia lui … Ma che me ne frega: io ho il mio “Montalbano”, che continua a farmi sbellicare dal ridere.
Per leggere, ormai, sono costretto a togliere gli occhiali ed è tutto un su e giù di lenti per non dover tenere il libro ad una distanza siderale, impossibile nell’angusto spazio del sedile di aereo.
Il volo, nonostante fosse Alitalia, si serviva di aeromobili Air-One, le hostes erano piuttosto insignificanti, gentili per contratto e con quel sorriso su faccia rifatta, che non capivi se fosse intenzionale o opera del chirurgo, e dire che erano anche giovani: che necessità avevano di ricostruirsi la faccia?
Volo sufficientemente tranquillo, con il solito piccolo rinfresco a base di salatini e piccolo bicchiere con bibita e, cosa encomiabile, assieme al solito tovagliolino di carta ed alla solita salviettina rinfrescante, hanno consegnato una bustina di gel disinfettante per le mani.
Ormai in dirittura d’arrivo, con l’Etna alla nostra sinistra, magnifica con il suo pennacchio di fumo e le striature bianche che non sai mai se si possa trattare di neve i cenere, inizia la discesa …
Un momento difficile!
Non capisco se fosse per la presenza di “termiche” o di vento o della scarsa esperienza dei piloti o chissaddio, sembra quasi che l’aereo stesse per precipitare: dopo numerosi sobbalzi e scuotimenti laterali, un improvviso abbassamento di quota, seguito da una picchiata, che solo i bambini a bordo hanno vissuto come un gioco tipo montagne russe. Atterraggio altrettanto traballante con frenata brusca inclusa nel prezzo … ma finalmente siamo a terra: il sole splende la temperatura e gradevole e si sente l’odore del mare. Sono in Sicilia!
Appena a terra, chiamo Cicitto per tranquillizzarlo. So già che per lui sarà un periodo difficile. Ma è ormai un anno che non vedo i miei…
Ritiro bagagli lungo, nonostante la nuova struttura aeroportuale. E nell’attesa sembra sempre di essere al 12 Giugno, che quando non li vedi li senti, con le vocine di tre toni più alte di qualsiasi umana possibilità, ora con straordinarie vocali aperte che solo il siciliano riesce ad avere.
Ad accogliermi mia sorella e mio cognato. E ci incamminiamo verso casa.
I paesaggi brulli e bruciati di una terra assetata da mesi di siccità e, quelle poche volte che ha fatto cattivo tempo, l’ha fatto davvero cattivo, con grandinate ed alluvioni per l’impossibilità della terra riarsa di accogliere le non poche gocce.
Chiacchiere nel tragitto, m’informo sui miei nipoti e sulle loro fatiche scolastiche, che, a quanto pare, non sono state poi così faticose, nel senso che non ci hanno messo così tanto impegno, tant’è che Irene è stata rimandata a settembre con tre materie e Salvo, se qualche santo lo protegge, andrà settembre con quattro se non addirittura rischia la bocciatura. L’unica che si salva è Federica, impegnata nell’esame di terza media, ma che sembra non abbia problemi.
A casa, baci e abbracci, sistemo la valigia sul letto della mia camera da “figlio di famiglia” con il “lettino da educanda”, i miei famigerati farmaci in frigorifero e s’incomincia con le frasi convenevoli, per poi passare ai pettegolezzi su tutto il vicinato. Per lo più è un “Bollettino di Guerra” su chi è morto e su chi è malato grave: tumori e infarti sono all’ordine del giorno, non mancano ictus, aneurismi dell’aorta o celebrali (a scelta), qualche sclerosi multipla, tralasciando incidenti di vario genere e morti per cause naturali (vedi vecchiaia).
Il tempo, sebbene caldo non sembri dei miglior e lo faccio notare a mia madre, che mi rassicura che qui non piove da mesi e che non c’è nulla da temere…
Le ultime parole famose!!!
Quella stessa notte è arrivato una sorta di tornado, che ha scosso le persiane, fatto sbattere le porte e ribaltare i vasi di pomodori e di basilico che mio padre ha voluto mettere sul balcone (… “così non devo scendere nell’orto per farmi un’insalata” …). In tutto questo trambusto, mia madre dormiva…
La domenica è giorno di pranzo collettivo, nel senso che, per tradizione ormai consolidata da diciotto anni e più, tutta la famiglia, con consuoceri e collaterali e affini, si riunisce, ora a casa dei miei ora a casa dei consuoceri.
Si prepara il tavolone in cucina. La casa dei miei genitori è strutturata per essere enorme e riusciamo a sederci a tavola comodamente anche in quindici, ma questa volta eravamo solo dodici (si sta più larghi).
Ritrovo Venere e Pesce (ora si chiama così, ma è stato Pulce e anche Cutupiddu), entrambe più in carne e forse meno felici, Maria che cerca al solito di fare da mediatore e i suoceri di mia sorella, che, come anche i miei genitori, sembrano sempre più vecchietti.
Il signor Turi, come al solito inizia il pranzo con le sue solite battute: “Buon magiamento a tutti” (che tradotto dal siculo, vuol augurare buon prurito a tutti, alludendo a pruderie inguino-sessuali) e poi “Mangiate, perché un giorno sarete mangiati” (sottintendendo che solo gli altri saranno mangiati, cioè morti, ma non lui).
Piccole sciocchezze, che se non dicesse, staremmo in attesa, lasciando freddare il pranzo.
Pranzo ottimo, con ogni ben di dio, per almeno venticinque persone, perché mia madre dice: “… e se poi a qualcuno ci venisse il desiderio,’chè dobbiamo fare il mangiare contato?!... “
Si comincia con pasta alla Norma (salsa fresca di pomodori e basilico accompagnata con melanzane fritte e ricotta salata grattugiata al momento), a seguire pollo al forno con patate e pomodorini, cotolette, accompagnate da insalata fresca e melanzane panate, vino, acqua, dolci gentilmente offerti dal signor Turi, caffè e chiacchiere a volontà. Il tutto con il sottofondo delle corse del MotoGP.
Finito il pranzo, ad un orario improbabile del pomeriggio, io mi ritiro in camera dove finisco di leggere il mio libro e decido di provare la mia chiavetta internet della TIM comprata apposta per il viaggio per fare in modo di potermi commettere con Cicitto senza dover passare dai computer degli altri, tra l’altro, prima di partire, facendo una prova di connessione tramite messenger, mi accorgo che il mio PC non riceve i suoni, ma che purtroppo, non si può aggiustare così facilmente, ma bisognerà inviarlo alla “casa”, tanto più che è ancora in garanzia.
Comunque, la connessione con la chiavetta è del tutto impossibile.
Giramento di coglioni!
Cinquantaquattro euro buttati al vento e l’impossibilità di vedere il Mio Cicitto.
Cerco se ci siano delle reti Wireless disponibili, senza password di protezione a cui agganciarmi. Ci sono ma dalla mia camera non si collegano. Provo a girare per casa con il PC in mano come un rabdomante impazzito, anche riprovando con quella schifida chiavetta TIM, che avevo voglia di catapultare giù dal balcone. Quand’ecco il miracolo! Non la TIM ma una rete Tiscali, con una ricezione bassissima, ma che mi permette di connettermi, nell’angolo più remoto del gigantesco soggiorno, tra uccelli impagliati, orologi a pendola fermi da anni, trombe di tritone ed altre conchiglie, la collezione di bambole con il volto e le manine di ceramica ed un’infinità di altre ciarpamerie collezionate in tanti anni di mia assenza dalla casa natia.
Ma chi se frega! L’importante è riuscire a comunicare!
La sera stessa ci mettiamo in contatto e sembrava una situazione paradossale: io che parlavo, ma non sentivo, lui che sentiva ma che parlava a gesti ed era costretto a scrivere ed io che dovevo aspettare di leggere per poter rispondere. Intanto, comunque ci vedevamo, ed era bellissimo!!!
Il lunedì 21, inizio a leggere il nuovo libro (ne ho portati quattro: uno di Camilleri, uno di Busi e due della Litizzetto). Ho preferito quello di Aldo Busi: una sorta di reportage di viaggi e vacanze al limite del paradosso, raccontate sempre con la sua maestria linguistica e il suo acido sarcasmo nei confronti della vita e degli uomini.
Oggi è giornata di “parmigiana di melanzane” e mia madre, come sempre, ne ha preparato per un esercito.
Ottima e abbondante ed io abbondo nelle porzioni, tanto che mi sento un po’ appesantito, ma sottovaluto, pensando che non sono abituato alla cucina robusta, che il mio stomaco sia irritato dai farmaci e che, comunque, basterà un buon protettore gastrico e un po’ di tempo per la digestione e tutto si risolve. Tanto che la sera faccio il bis con la parmigiana rimasta, che scaldata è ancora più buona che a pranzo.
Notte di dolore!
Un dolore viscerale sordo e continuo, con accenni di nausea, sentore di dover andare in bagno, ma non riuscivo a far nulla.
L’indomani ero un po’ uno straccetto, il dolore, prima prevalentemente gastrico ora si era trasferito anche all’addome, e nemmeno i gastroprotettori hanno efficacia. Un grave sospetto: “… e se fosse un’ulcera duodenale, sopita fin ora e scatenata dal cibo e dal vino robusto …”.
Mi tengo mentalmente pronto a chiedere di essere portato al pronto soccorso se il dolore non si attenua.
Intanto, pasta in bianco, con le solite porzioni di mia madre, cioè per almeno tre persone.
Nel pomeriggio cominciano i primi segni di dissenteria. Alleluia!!!
Non certo per la dissenteria che mi torceva i visceri, ma perché, finalmente, ho potuto fare auto-diagnosi di enterocolite infettiva, presumibilmente di natura virale.
Sono un GENIO!
Inutile tediarvi con particolari tecnici sul decorso della malattia. Riso in bianco con porzioni da camionista, Disseten e fermenti lattici.
Ovviamente, niente mare. Ma mi consolava il fatto che il tempo non fosse dei migliori, tanto da dormire con il piumone e di giorno tenere jeans lunghi e camicia a maniche lunghe.
In compenso non ho fatto altro che starmene sdraiato, sotto il mio piumone, al calduccio, tra la lettura ed il dormiveglia, alzandomi solo per andare in bagno o per mangiare la mia mega porzione di riso in bianco.
In verità, quando si apriva qualche spiraglio di cielo terso, era di un azzurro travolgente ed il sole era davvero caldo, c’era anche un’arietta fresca che quasi pareva di essere in primavera, specie la sera.
Cicitto, intanto, mi ragguagliava sul meteo della Brianza e della Bergamasca: ha piovuto anche lì, con relativa abbassamento delle temperature.
Posso proprio dirlo: un periodo di merda!
Poche escursioni, fuori dalla casa avita: una capatina al supermercato per prendere del prosciutto cotto, in previsione di uno svezzamento dal semplice riso in bianco, con relativa burrasca verbale tra mio padre e mia madre su sciocche incomprensioni di tipo logistico.
Diventare vecchi fa diventare più insofferenti. E come sarò io alla loro età?
Sicuramente un gran rompicoglioni con tutte le mie manie da precisetti.
Giovedì pomeriggio, in pieno trip nazional-calcistico, per la partita dell’Italia, non so neanche con quale squadra, con mia sorella e una delle nipoti al seguito andiamo a comprare il regalo per il cinquantesimo anniversario di matrimonio dei miei genitori. In effetti, la data dell’anniversario è già passata da un pezzo, ma si è deciso di festeggiarla, tutti insieme, ora che ci sono pure io.
Dunque, ci troviamo a guidare per strade completamente deserte, al limite dell’irreale, entriamo in un mega negozio in cui tutti gli addetti alle vendite sono davanti ai maxi schermi, tutti sintonizzati sullo stesso canale, dove una Nazionale deludente chiude un’avventura deludente in terra d’Africa. Ed il mio commento è: “Toglietegli gli stipendi!!!”. Se l’unica cosa che interessa loro sono i soldi e la popolarità, colpiamoli su questo. Queste signorine del calcio, che non fanno altro che GIOCARE, sputtanandosi tra una discoteca e l’atra, ma senza curarsi di fare ciò per cui sono profumatamente pagati, vanno mandati tutti a casa, a LAVORARE sul serio, altro che scuse e giustificazioni da tifoso.
Alla fine, a tutti coloro i quali si disperano e si avviliscono per questi nullafacenti, che cosa ne viene in tasca? Spendono paccate di soldi in decoder satellitari per vedere le partite, altri soldi in biglietti e trasferte negli stadi, si ammazzano e si scannano, in nome di un ideale di squadra, che alla fine non è condiviso dagli stessi giocatori, che non vedono l’ora che ci sia qualcuno che li paghi di più per raccattare baracche e burattini e partire per nuovi lidi, verso i quali provare lo stesso disinteresse che provavano prima.
Finita questa invettiva calcistica, torniamo al regalo da comprare e, questa volta, posso decidere anch’io.
Prendiamo un telefonino, giusto giusto per loro: numeri grandi, sportellino richiudibile e facilità d’uso, buona marca e buon prezzo.
Una tantum mi sento contento di aver potuto scegliere.
In serata, sono stato invitato da Maria ad uscire con un gruppo di vecchi amici.
Accetto, anche perché pare che la terapia d’urto abbia sortito effetto e, tranne un lieve risentimento addominale (pare di aver preso un pugno nella pancia) e un po’ di meteorismo, per il resto mi sento abbastanza bene.
Passa a prendermi per le otto e venti ed in macchina c’è Alessandra: uguale a sempre, o quasi. Come su tutti, il tempo passa e lascia il segno, tanto più su chi ha avuto grossi dispiaceri.
Arrivati in piazza, posteggiamo e troviamo Sara, Linda e fidanzato. Aspettiamo solo l’arrivo di Alfia con marito e figlie. C’è fresco e così entriamo da Mario “Alla Mansarda”, anche perché l’idea è di fare una sorpresa ad Alfia.
Eccoli. Abbracci, baci. “Sei sempre la stessa … Come sei cambiata … Ti trovo più magra … Ti trovo più in carne …” Il festival di tutte le frasi fatte che si possono dire quando rincontri un vecchio amico. Quando la verità è che siamo tutti cambiati … E come potremmo non esserlo!
Inclemente il tempo passa sulle nostre vite.
E tanto più tempo passa tra un incontro e l’altro e tanto più ti sembra drastico il cambiamento.
Facciamo battute salaci, scattiamo foto ricordo, cerchiamo nella memoria gli episodi più divertenti, si ordina da bere e da mangiare … e tutto fila liscio, fino a quando non si comincia a tirare fuori i propri dolori e propri malesseri.
Ed è così che scopro che Alfia ha perso il padre e Alessandra la madre ed entrambe ne soffrono ancora.
Ma la serata volge al termine. Domani è Venerdì, ancora una giornata lavorativa.
Quindi saluti, abbracci, promesse di non far passare così tanto tempo prima di rivederci … insomma tutto il campionario.
Riaccompagniamo Alessandra a casa e passiamo a prendere Linda, che si era attardata con il fidanzato, il quale ci fa l’onore di mostrarci il suo nuovo compagno di gioco: un IGUANA. Sì, non sto scherzando, un vero iguana in squame, zampette e coda, ancora un cucciolo che dovrebbe diventare, sempre che sopravviva, di un metro e mezzo di lunghezza.
La domanda sorge spontanea: “Che cacchio te ne fai di un iguana?” … “Non potevi continuare a giocare con il piccolo lucertolino che hai nelle mutande, senza scomodare quella povera bestiolina tropicale?”…
Ma queste sono domande a cui non avremo mai una risposta. Forse, un giorno, Voiager o Quark arriveranno a risolvere il mistero.
Cicitto l’ho sentito al telefono intanto che eravamo in macchina. Ci sentiamo almeno due volte al giorno, grossomodo agli stessi orari di sempre, e , quando i rispettivi PC lo consentono, riusciamo anche a vederci, comunicando con lo strano linguaggio di scrittura e gesti a cui ci siamo dovuti adattare.
Venerdì 25, giorno dedicato a Lucia.
Mi sveglio sufficientemente per tempo, essendomi addormentato tardi (le cinque del mattino, circa).
Mi sistemo ed aspetto che venga a prendermi Lucia.
Negli ultimi mesi, ha vissuto un periodo piuttosto difficile: prima la perdita della madre, che seppure anziana e un po’ rompiscatole, ha comunque lasciato il segno; poi la morte dell’ex marito, che tanti problemi le aveva causato, ma la sofferenza dei figli per la sua dipartita è stata anche la sua; poi, per finire in bellezza, un accidente tra capo e collo, nel vero senso della parola. La investono con la macchina, bloccata con il collare per un bel pezzo; ma non è finita: ecco che arriva un ictus che la blocca a casa per sei mesi, tra ospedale e riabilitazione. Per fortuna, si è risolto abbastanza bene, non lasciando altro strascico che un a lieve balbuzie, specie quando è sotto tensione.
Io ho seguito tutto il susseguirsi degli eventi a distanza, sentendoci per telefono e cercando, per quanto possibile di rincuorarla e rassicurarla sul buon esito della situazione.
Ora la rivedrò, dopo un anno di distanza e tanti eventi di mezzo.
E’ sempre lei, a parte la balbuzie e una sorta di lieve infantilismo, ma lei ci ha sempre giocato a fare la sciocchina per far fare a me il genio.
Baci, abbracci, commozione. Saliamo in macchina e incomincia un balletto: “… Scegli tu … no scegli tu … ma tu dove vuoi andare?... a te dove piacerebbe?...”. Estenuante, tanto che mi spazientisco … ed è in quel momento che mi rendo conto che lei è davvero vulnerabile. Cambio tono.
Alla fine, decidiamo di fermarci a mangiare all’Atlantis, sul lungomare di Fondachello.
Prima di entrare ci scambiamo i regali, poi cerchiamo di capire dove poter mangiare, ma inizia tutta una diatriba con la signora del ristorante, di cui non capivo la ragione, su dove fosse posizionato lo scorso anno il ristorante. Alla fine, si risolve la controversia, o forse rimane solo in sospeso, e ci si fa accomodare a bordo piscina. Ordiniamo, chiacchierando amabilmente, come due vecchie comari in vacanza. Il cibo è buono, il posto è bello, il cielo è limpido e l’aria è calda, c’è anche un bel ragazzo che fa il bagno ed una bagnina che è palesemente lesbica.
Un bel pomeriggio, seduti sotto l’ombrellone, con il riverbero dell’acqua, parlando di tutto un po’.
Alla fine, lei vuole offrirmi il pranzo, ma non vuole essere lei a pagare e mi passa sotto banco una banconota. E’ inutile che provi a ribellarmi a queste bizzarrie: le voglio troppo bene! E cosi chiediamo il conto ed io pago, in sua vece e lei è contenta.
A questo punto andiamo a casa sua, che io avevo visto solo da fuori, prima che lei la comprasse.
In casa ci sono Valeria con una sua amica e Giovanni.
Entrando, devo ammettere, ho avuto un momento di smarrimento: purtroppo me l’aspettavo un po’ più grande, mi aveva detto che fosse piccola, ma non pensavo effettivamente tanto piccola.
Come le ho anche detto, lei si è inventata una casa che non c’è! Non ci sono spazi, non c’è molta luce, tutto è concentrato in pochi metri quadri. Da una scaletta ripida si passa al piano superiore dove c’è la cameretta dei ragazzi e da qui si accede ad un bagno piccolino e tramite un’altra scalettina si arriva al piccolo terrazzo dove si trova una verandina che fa da lavanderia e ripostiglio e, in un angolo del terrazzino, c’era Luna, il loro cane.
L’umido, che un tempo aveva cercato di eliminare era di nuovo riaffiorato, rovinando la carta da parati che ora appassiva sulle pareti. Tutto aveva un non so che di decadente, con una vena creativa, che aveva altresì qualcosa di distonico.
Ma lei è così felice ed orgogliosa della sua casetta, da amare anche la macchia di muffa che lentamente sta degradando l’albero che lei ha dipinto sul muro in uno dei suoi attacchi creativi.
Come disilluderla?!
Ho, comunque, insistito che al più presto chiami un muratore che le sistemi il problema dell’umido, prima che arrivi l’inverno.
I ragazzi escono e noi ci fermiamo a guardare le foto sul computer. Poi si decide per un giro in macchina e, sul percorso, diamo un passaggio a Valeria ed un’altra delle sue amiche (che a me pare decisamente gay).
Essendoci una messa di suffragio per la madre e l’ex marito, Lucia decide che Valeria debba andare, in rappresentanza di tutta la famiglia e lei, carinamente accondiscende. Io, notoriamente anticlericale, non capisco questa necessità di dare soldi al parroco, solo per nominare un nostro defunto in una normale messa di routine: fammi almeno una cerimonia solenne, con tanto di elogio e cori e canti e tutto il cucuzzaro. Ma,ovviamente, la mia idea non è condivisa da una fervente cattolica, qual è Lucia.
Comunque, noi lasciamo Valeria sul sagrato, per assistere alla messa, mentre noi ce ne andiamo in giro per via Gallipoli e poi Corso Italia, fino a raggiungere piazza Carmine, dove ritroviamo Valeria, appena uscita da una messa ultra rapida: padre Diego avrà avuto altro da fare.
Ho fatto diverse foto per tutta la città e con loro e, alla fine, ormai le sette passate, mi riaccompagnano a casa.
Le stringo fortissimamente, tutte e due, e mi sembra quasi di lasciare due bambine spaurite. Valeria è già una donna fatta, alta, fisico atletico, bei lineamenti, aspetto vagamente lesbo, ma in fondo, nonostante i suoi ventuno anni, è rimasta una bimba. Mentre Lucia, che tempo fa aveva acquistato forza e carattere, ora sembrava fragile, vulnerabile, persa in un mondo fantastico in cui tutto è a misura di Lucia, fatto di particolari che non fanno parte di un disegno generale, in cui l’orizzonte è tutto compreso nella finestrella che da su un giardino che non c’è. Lei è la poesia fatta persona, che non segue regole grammaticali, né canoni sintattici, solo lo slancio della fantasia e dell’illusione.
Ci salutiamo sul cancello e mi sfugge un lungo sospiro: commozione, o rimpianto per averla lasciata andare da sola, ancora una volta, ad affrontare le sue paure …
Rientrato a casa, mia madre mi dice che sta sera, per cena ci saranno arancini di riso, fatti da mio cognato.
Attendiamo che arrivino anche Anna, Sebastiano, Irene e Salvo per metterci a tavola per cena. Federica è partita con una sua amica e la famiglia di lei per Vulcano, dopo tanto dibattere se fosse il caso. Ma, alla fine, mia sorella ha ceduto alle pressioni della figlia.
Chiacchiere e discussioni sulla mala sanità e sull’incidente occorso a Sebastiano, nell’impianto del ICD. In effetti, di incidenti ne sono capitati troppi, tanto da mettere in dubbio le leggi della statistica. Ora si ritrova con una sgradevole lesione da ustione da radiazioni sulla schiena, che, probabilmente, guarirà tra molti mesi.
Andati via i ragazzi, mi metto in contatto con Cicitto, tramite messenger, con il nostro articolato sistema di comunicazione, e mi sono anche eccitato, intanto che parlavamo … e gli e ne ho dato la prova via web …
Divertente! Ma lui si è imbarazzato ed abbiamo troncato il piccolo gioco che avrebbe potuto essere.
Tornato in camera, ho dato libero sfogo alla fantasia. Ma non è la stessa cosa. Fare l’Amore è un’altra cosa … certo meglio che niente!
Sabato, altra giornata di relax.
Mi sono attardato nel letto ed il resto della mattinata è volato stando un po’ al computer e ripensavo alla giornata di ieri.
A pranzo, abbiamo mangiato stando in balcone, sebbene ci fosse un po’ d’arietta, si stava bene.
A fine pasto, si è intavolata una discussione sulla difficoltà di comunicazione.
Ho cercato di far notare come la comunicazione tra genitori e figli fosse improntata su dei canoni di scontro, di tensioni non risolte, in cui si usa l’aggressività perché non si ha il coraggio della propria emotività, in cui le affettività vengono castrate e negate per paura di esporsi, per timore di soffrire se non adeguatamente corrisposte. Colpa è anche dei nostri genitori, che non sono mai stati educati a comunicare. Ma questa non può e non deve essere una giustificazione. Se c’è stato un errore nelle generazioni precedenti, perché noi dobbiamo reiterarlo, se sappiamo benissimo che ci sono delle vie alternative, se sappiamo che ci sono dei mezzi che ci permettono di superarlo e risolverlo.
Ogni giustificazione è buona per tirarsi indietro. E’ così facile dare sempre la colpa a qualcun altro o a qualcos’altro, o pensare che in qualche modo tutto si aggiusterà, “se ce l’abbiamo fatta noi cela faranno anche i nostri figli”. Ma il punto è: noi ce l’abbiamo fatta davvero?
Sempre in conflitto con noi stessi, ci ritroviamo a combattere con tutto ciò che ci circonda. Lottiamo con i nostri figli, perché loro non commettano i nostri stessi sbagli, ma quali sono i modelli che stiamo dando?
Abbiamo paura delle proprie paure! Ed il timore di affrontarle ci blocca.
Se vogliamo davvero bene ai nostri figli, facciamo un piccolo sforzo di volontà ed affidiamoci a qualcuno, che ci possa dare le chiavi per aprirci finalmente al mondo.
Chi ha orecchie per sentire lo senta!
Nel pomeriggio è venuto a trovarmi mio cugino, con la bambina e mia zia Tina.
Ci siamo fermati a chiacchierare, intanto che Eleonora, smilza e con lo sguardo acceso, correva per il balcone e mia madre e la sorella si raccontavano gli acciacchi ed i malanni.
Frattempo la temperatura si faceva più fresca ed io che ero in calzoncini e maglietta ed infradito, ho cominciato ad avere freddo.
Mi fa sempre molto piacere ritrovare mio cugino Salvo, con il quale siamo cresciuti da piccoli come fossimo fratelli, abbiamo condiviso tutte le stupidate tipiche dei ragazzini, fino a che siamo un po’ cresciuti e, necessariamente, abbiamo fatto percorsi diversi. Per anni lui è stato un puttaniere incallito, arrivando ad avere anche tre ragazze nello stesso periodo. Poi si è dato una ridimensionata, ha messo la testa a partito: ha preso il diploma che non aveva raggiunto quando era in età da studio,ha trovato un lavoro in università, è diventato padre e, sicuramente, è questa la veste in cui lo vedo meglio: attento, premuroso e responsabile. Bravo Salvo!
Dopo cena, sono passati a trovarmi Tiziana ed suo compagno Giuseppe.
E’ sempre carina, tenera, con quella sua fragilità e modestia che l’hanno sempre contraddistinta.
Abbiamo ricordato i brutti momenti vissuti nei mesi in cui sua mamma si era aggravata ed in fine si è spenta, dopo una lunga agonia, per il tumore che l’ha devastata.
Ora lei sta cercando di ricostruire la sua vita, anche se con difficoltà, che ancora le si frammezzano. Ma, per fortuna non è da sola.
Andati via loro ho sentito il Mio Cicitto al telefono e poi abbiamo ritentato la connessione web, ma la tecnologia ci ha beffati, interrompendosi il collegamento in continuo, tanto che, alla fine abbiamo desistito e ci siamo dati la buona notte.
Ma mica ho preso sonno. Sono rimasto sveglio a girovagare sul computer fin oltre le tre e poi a leggere, anche se con un vago senso di torpore, che mi costringerà, l’indomani, a rileggere diverse pagine.
Ed è di nuovo domenica.
Essendomi addormentato così tardi, mi sono svegliato altrettanto tardi.
Mi sono crogiolato nel letto e poi in bagno per barba e doccia. Bevuto il mio Actimel, assunte le mie pillole, gustato il caffè, mi sono preparato per andare al bar, da mio cognato.
Come ogni domenica, il rito del pranzo collettivo non si può saltare.
Intanto che andiamo in macchina, mi chiama la “mamma adottiva”, per sapere della mia dissenteria e per raccontarmi le ultime cose, in quel di Mondonico.
Entrato al bar, incrocio subito Pesce con sua nipote Lisetta. C’è parecchia gente in un via vai di vassoi di paste e pasticcini, di torte gelato e granite, mangiate alle dodici e mezzo (“… tanto si va a tavola tardi, intanto chiudo un buco …”). Passo in laboratorio dove c’è un gran fermento: torte da decorare, pasticcini da inzuppare nel cioccolato, brioches da infornare, polvere di farina e zucchero a velo. Venere passa più volte chiedendo dei cannoli, al volo, Maria che sollecita le torte … un vero marasma, nel quale si muove con gran disinvoltura Orazio, collaboratore ed amico di Sebastiano, entrato nel laboratori quando era ancora un ragazzo e non ne è uscito più: più che un collaboratore, una vera spalla su cui poggiare.
Sentendomi d’impaccio, stavo sulla porta, ma mia sorella mi recluta a dare una mano con la piccola pasticceria da riporre nei vassoi per il banco espositivo. A me si unisce anche mia madre, molto più esperta, per tutte le ore passate a dare una mano nei momenti di necessità.
Mio nipote Salvo, visti i risultati scolastici, è stato reclutato per il bar e pare tutto compreso nel ruolo.
Verso la una, s’innesca una discussione tra genitori e figlio, a cui non voglio assistere, in cui, come sempre, c’è un problema di fondo di comunicazione: urlata, ognuno dalle proprie posizioni, senza la volontà di fare il ben che minimo movimento di avvicinamento.
Ormai è quasi pronto per andare a tavola, e chiamo Cicitto, altrimenti chissà a che ora mi sarebbe stato possibile, conoscendo i pranzi della domenica. Ovviamente, non mi posso dilungare, né posso esplicitare tutto ciò che stava succedendo. Ma ci risentiremo dopo.
Menù del giorno: panzotti alla domenicana in salsa di noci, arrotolato di pollo arrosto con funghi e piselli, contorno di cuori di carciofi panati e frittelline di patate, vino bianco e rosso, acqua, bibite varie, frutta (anguria, pesche e mele) e, per finire, dolci vari più un semifreddo alle mandorle coperto di cioccolato.
Sento, nuovamente, tornare un senso di rigurgito da indigestione.
La conversazione del pranzo è rimasta incentrata sui mondiali di calcio, di cui conoscete già la mia visione, per poi finire con i problemi di Venere.
Ho cercato di spiegarle che le crisi di ansia e di panico vanno superate sia con l’aiuto farmacologico che con la terapia del linguaggio, che non ci si può appoggiare sempre sugli altri, ma che bisogna trovare la forza ed coraggio di affrontare le proprie paure, guardare in faccia il “mostro” e dire: “Io ti posso sconfiggere, perché lo voglio fare!”. Bisogna prendersi le proprie responsabilità, essere coscienti che siamo stati noi, con il nostro agire o non agire, a lasciare che alcune cose accadessero.
Come dicevo in un altro contesto, è fin troppo facile dare la colpa a tutto ciò che è fuori di noi, quando noi non abbiamo fatto nulla per evitarla o, magari, l’abbiamo assecondata, se non addirittura, voluta.
Parole che sono troppo vere per poter essere ascoltate. Meglio lasciar perdere e cambiare discorso. Far finta di niente … Fino alla prossima crisi, fino al prossimo attacco, quando si tornerà a fare i soliti ricatti morali: “Io sto male e tu mi devi stare vicino!”.
Ma ci sarà il momento in cui, chi ti sta vicino si sarà stufato di correre al tua capezzale di bambino capriccioso e ti lascerà affrontare, da solo, la tua paura. Ed allora, o ne esci vivo o muori definitivamente.
Che discorsi tristi, dopo una tale mangiata pantagruelica.
Meglio andare a fare un pisolino ristoratore e digestivo. Tanto più che, sta sera sono stato invitato ad assistere al saggio di danza di Linda, che si esibirà in una coreografia di danza moderna, al teatro Maugeri di Acireale.
Mi passa a prendere Maria e Irene, verso le otto e ci dirigiamo verso Acireale, dove giriamo un bel pezzo prima di trovare un posteggio. Fiori in mano, ci troviamo davanti al Maugeri, restaurato, dopo decenni di incurie. Bisogna attendere fin quasi alle nove per prendere posto e che inizi lo spettacolo, ma, intanto, lo spettacolo era già lì fuori, dove un nugolo di parenti ed amici, variamente agghindati con l’abito delle migliori occasioni e le acconciature più improbabili, con corbeillies di fiori, manco ad una prima della Scala e che di danza sapevano, forse, quanto un gruppo vacanze al villaggio turistico.
“ … Sua figlia quanti balletti fa? … Beh, dopo tanti sacrifici, loro e nostri … Ha saputo della Maestra? … Ma quanto era tesa mia figlia … “.
Commenti in ogni dove, ed intanto ci raggiunge Venere e Lisetta.
Si abbassano le luci, tacciono le voci e nel buio … incomincia una lagna colossale, suonata dal vivo, da un compositore locale, che è stato definito “Il nuovo Morricone”. Sarà, ma con quella musica e le diapositive di tutte le allieve, nel dietro le quinte, non sembrava un buon inizio.
Il conduttore della serata, che ho saputo in seguito, essere il marito della direttrice della scuola di danza (insomma tutto in famiglia), aveva la stessa pronuncia di Malgioglio. E pensare che io ho sempre detto a Cicitto, che quella di Malgioglio è un’inflessione assolutamente improbabile e che nessuno in Sicilia parla così.
Prima di entrare, avevo chiesto a Maria, ormai esperta di saggi artistici, quanto potesse durare, anche per rendermi conto dell’orario in cui poter sentire Cicitto. “ … In genere, togliendo l’intervallo e i saluti e ringraziamenti finali, (pausa di riflessione e di conteggio) un’ora e mezzo …”.
Le ultime parole famose!
Tre ore e mezzo di balletti di dilettanti allo sbaraglio!
Certo le bambine erano carine, nei loro tutù e nelle loro gaffes ed imperfezioni, tra il tenero ed il clownesco; poi arrivano le ragazzine, ed anche qui non si può pretendere molto da delle allieve; a seguire, il corso avanzato, in un tripudio di “tutto di più”, tra culone svolazzanti e spillungone anoressiche che si atteggiavano a Savina Savignano.
Certo una scuola di danza, specie se a pagamento, deve accettare tutti e, a fine anno deve far esibire tutti, per la gioia dei genitori paganti le rette (“ … Che se la ragazza è contenta … Uno lo fa con piacere … Ma poi i risultati si vedono … Certo che se la deve un impresario … Magari anche qualcosa in televisione … O alla Fiera Campionaria … “), ma chi ha occhi per vedere, dovrebbe evitare di illudere le ragazze ed i genitori.
La prima parte del saggio passa abbastanza velocemente, belle le musiche e con un’ottima acustica, scarse e un po’ noiose le coreografie. E, nel finale, un pistolotto terrificante, tra lo pseudo religioso, tipo sermone, al politically correct di Comunione e Liberazione, durato un’eternità, con il “Morricone dei Poveri”, che continuava a suonare come un invasato ed il “Fratello Segreto di Malgioglio”, che declamava versi incoerenti sull’Africa ed i bambini abbandonati e la necessità di fare adozioni a distanza.
Eravamo al limite del collasso, tra risate d’isteria e la vera volontà a farla finita, tagliandoci le vene o tagliandoci i coglioni ormai completamente triturati.
Finalmente l’intervallo!!!
Sono le dieci e mezzo ed, ancora, sembra che la cosa sia molto lunga.
Telefono a Cicitto, raccontandogli, per quanto possibile, gli eventi salienti ed intanto, ecco che parla “Malgioglio 2”, per richiamare il pubblico, per l’inizio della seconda parte. E giù a ridere, come dei forsennati.
Restiamo intesi, che se lo spettacolo dovesse finire, così come dissero le parole famose di Maria, entro la mezzanotte, ci saremmo risentiti, altrimenti ci rinviavamo all’indomani.
Inizia il secondo tempo …
Solita solfa, anche se, alcuni quadri, tratti da musical, erano abbastanza ben congeniati e, togliendo le necessarie imperfezioni, ritardi, vaghezze, … a tratti, non era male.
Chicca delle chicche, per dare il tempo alle ragazze di cambiarsi, il solito “Morricone”, ha suonato un'altra delle sue composizioni da colonna sonora, ed a completare la scena, uno degli insegnanti ha improvvisato un balletto, davvero ispirato. E, per chi ne avesse il minimo dubbio, vi dico subito che era UNA PAZZISSIMA, UNA VERA DIVA, la Isadora Dancan della Riviera dei Ciclopi.
Applausi a scena aperta!
Ma non cela facevamo più!
Venere, mezza stravaccata sulla poltroncina, che sgranocchiava una barretta energetica, io con la bocca riarsa per la sete, Irene e Lisetta al limite del collasso e Maria che, serafica, si lamentava solo che non era come quello degli anni precedenti.
Arriva il gran finale, i saluti ed i ringraziamenti, la consegna dei fiori e baci e abbracci e lacrime e ….. Basta! Non era umanamente possibile: nonne che mostrano i primi segni di Alzheimer (erano sane all’inizio), madri con il trucco sbavato e cadente, padri con i riporti ormai al vento, vestiti sgualciti e fiori appassiti. Sembrava di essere tornati dalle grandi manovre!
Era, ormai, mezzanotte e un quarto.
Ci muoviamo, verso l’uscita degli artisti, con i pochi ultimi temerari che sono riusciti a sopravvivere. Rimasti, più per ritirare le figlie (nel senso di portarle a casa, anche se il loro segreto intendimento è di ritirare, veramente, le figliolette dalla scuola).
Quando, finalmente, ci troviamo in strada, ormai in macchina, con la fame che divora le viscere, ci si rende conto dell’ora: la una meno un quarto.
Dove trovare un posto ancora aperto?
Idea geniale di mia nipote Irene: andiamo a mangiare il kebbab. Lo fanno buono vicino alla Villa.
E via, verso la Villa Comunale. Ma Stavano chiudendo. Ed anche l’altro, poco distante, era già chiuso ed il proprietario stava innaffiando le piante, fuori dal negozio. Stessa sorte per quello all’inizio di Corso Umberto.
Si decide di andare verso Acicastello, magari qualcosa di aperto ancora c’è. Ed in effetti, troviamo un asporto di kebbab, che chiudeva alla una e quarantacinque: eravamo ancora in tempo.
Mangiamo in macchina, intanto che Maria guidava (no, lei non mangiava), accompagnando a casa, prima Venere e Lisetta, anche perché eravamo ad un passo da casa loro, e poi noi.
Per strada, Linda e Irene si erano abbioccate e Maria ed io parlavamo, ancora dei “problemi di comunicazione”. Ma, arrivati quasi a casa, Irene si rende conto di non avere con sé le chiavi di casa e, conoscendo il sonno pesante della sua famiglia era un po’ in apprensione. Non sarebbe certo rimasta sul portone, sarebbe potuta venire a casa da me o da Maria, ma si risolve il problema con tattici squilli e messaggi.
Finalmente, tutti a casa.
Qui, l’aria è decisamente più fresca che ad Acireale, sia perché la città è sempre più chiusa, sia perché siamo un po’ più in alto. Comunque, fumo l’ultima sigaretta e mi metto a letto, finendo di leggere le ultime pagine del libro di Busi: mi ha lasciato un po’ di amaro in bocca, ha messo in luce un uomo disilluso dalla vita e dai rapporti umani, in cui non trova più alcuna consolazione, né aspettativa, né, tantomeno, speranze; un uomo rassegnato a vivere gli anni che gli restano nella solitudine peggiore: quella senza alcuna volontà di reagire.
E ora di dormire!
Il lunedì mi aspetta la festa di compleanno di Fabiana e, chissà, quali sorprese …
Lunedì 28. Mi sveglio verso le otto, a causa della luce che entra dalla porta-finestra, che la sera prima ho dimenticato sollevata di un pezzo, Ma ho ancora sonno, cerco di girarmi, cerco di riaddormentarmi, ma mi scappa la pipì. Tanto vale che mi alzi e mi liberi la vescica, altrimenti non mi riaddormento più.
E così è. Mi risveglio per le dieci e mezza, solite abluzioni, solite pillole, solito Actimel e caffè e, poi, mi siedo al computer a leggere. Quand’ecco che suona il telefono: è Rosetta che mi chiede se sono in casa. Beh, se ti rispondo dal telefono fisso, forse sono in casa. “… No, perché devo copiare delle canzoni, per la festa di sta sera, sul CD, ma non sono capace. Me lo puoi fare tu se ti porto il PC e tutto il resto? ...”.
Che dire? “Vieni”.
Arriva dopo un pezzo, carica come un mulo, del suo portatile, con relativi CD e chiavetta per connettersi, visto che i brani da copiare erano in un sito web. Accendiamo tutto, mettiamo la chiavetta, … ma questa ha bisogno del PIN, che lei non ricorda e che ha a casa.
“ … No, ma tu per intanto masterizzami questo che mi ha prestato la mia amica, io intanto vado a Linera a prendere i salumi, poi vado a Giarre, lascio la bambina da mia suocera, prendo il PIN e torno … “.
Meglio non discutere. La lascio andare a tutti i suoi impegni inderogabili e tutti in contemporaneità. Io, intanto, mi sistemo le mie cose e poi si vedrà il da farsi.
Era già l’ora di pranzo, ed arriva mio cognato e mia sorella, e si decide per una bellissima misurazione di pressione collettiva. Tutti malatoni, tutti agitati, ma l’unico con la pressione alta risulto io.
Ci mettiamo a tavola, più contenti e soddisfatti, apprestandoci ad assaggiare l’insalata di riso e la parmigiana di melanzane, quand’ecco che suona il citofono: è Rosetta.
“ … Ma, non me lo puoi fare tu, da solo, questo lavoro, che io devo andare a dare da mangiare alla bambina e poi devo trovare dello spago per arrosti, che devo appendere i festoni, che devo … “.
“Senti Rosetta, io ti voglio bene e sono tuo padrino di cresima e tuo testimone di nozze, ma come mi puoi chiedere di mettere dei brani, alternati quelli per bambini a quelli per i grandi, se non so neanche quali brani vuoi? Tu, ora, ti siedi un attimo e mi dici cosa vuoi ed in che ordine e, poi, te ne poi andare ad impiccarti con lo spago per gli arrosti con tutti i festoni ed i CD!!!”.
Alla fine, ne veniamo ad una. Lei va a casa, a fare tutto quello che ancora le resta da fare: cioè dire rivoluzionare il mondo, prima della festa per sua figlia; ed io posso, finalmente assaggiare la mia deliziosa insalata di riso.
Dopo pranzo, riesco in brevissimo a fare i CD che aveva bisogno, le porterò il PC e tutto il cucuzzaro, questa sera, quando andrò a casa sua, con l’incarico di portare anche la torta, che ha fatto Sebastiano.
E, per qualche ora, non voglio sentire e vedere nessuno!
Ho iniziato a leggere uno dei libri della Litizzetto, che adoro sia come intrattenitrice televisiva sia come scrittrice. Vero è che i suoi libri altro non sono che la trasposizione dei suoi monologhi, ma leggendoli, io me la rivedo, seduta sulla scrivania di Fazio, sentendone la voce, con la sua inflessione tipicamente piemontese.
Verso le sette, mi sono preparato, ho chiesto la macchina a mio padre (ogni volta mi sento come un diciottenne, che deve chiedere le chiavi di casa). Purtroppo, io sono già un guidatore svogliato, in più non conosco la macchina e, ancora di più, è la macchina di mio padre, che se anche le facessi un minuscolo graffio, sarebbe una vera tragedia.
Vado a prendere Irene e la torta, con relative decorazioni, ma mi rendo conto d’aver dimenticato a casa il regalo per Fabiana. Ripassiamo da casa e già mio padre va in allarme: “Cosa è successo?”.
Arriviamo a Giarre per le otto ed, a casa di Rosetta è già il caos. Ma non per gli ospiti, che ancora mancano, bensì per la bambina già sull’orlo dell’isteria.
Erano presenti le due suocere con relativi consorti, una nostra cugina con figlio di tre anni, e la madrina di “cuppuluni” (E’ antica tradizione in Sicilia che, oltre alla madrina ufficiale, ci sia una madrina affettiva, che, al momento del battesimo, lavi il “cuppuluni”, cioè dire, la cuffietta. Oggi, che non esiste più l’uso delle cuffiette per i neonati, tale madrina, lava il fazzolettino ricamato con cui viene asciugato il capino del bimbo, dopo essere stato asperso dal parroco con l’acqua santa. Ma io sono convinto, che questa pratica serva soltanto per riuscire ad avere solo un grosso regalo in più.)
Andiamo in terrazza, dove è stato posizionato un artistico gazebo in ferro battuto, buono per il giardino di una villa, con tanto di teli e drappi; ci sono festoni e palloncini, in un tripudio di Hello Chitty; tavoli e sedie ovunque ed uno stereo, che suona canzoncine per bambini, con tutto il repertorio. Solo che, mi rendo conto che alla bambina, di tutto ciò, non gli e ne importasse nulla, se non scaraventare a terra bicchierini e tovagliolini colorati, rigorosamente nei toni del rosa, il tutto in un attacco di capricci a go-go.
Quanto avrei voluto Tata Lucia, ma forse sarebbe stato meglio che ci fossero state tutte le tate di tutte le edizioni di “Operazione Tata”, anche perché, poco dopo, si è aggiunta Eleonora, completando così il trio infernale alla Dario Argento.
Altri ospiti, c’erano, ovviamente, mio cugino Salvo e la moglie, la coppia di testimoni di nozze di Rosetta, con i quali sono molto amici, un’altra coppia di cui lui è collega di lavoro di Santo (il marito di Rosetta), e, in ultimo, è arrivato il fratello di Santo, che ha preparato alcune delle cose che abbiamo mangiato.
Il menù era composto da quantità spropositate di salatini di ogni genere, a seguire, panini al latte con farciture varie, pizzette, arancini di riso e “cartocciate”, bibite varie, in ultimo la torta gelato e la macedonia.
Per tutta la sera, mi sono diviso tra mio cugino Salvo e Saro, il testimone di nozze, con mia zia Tina, che mi tampinava raccontandomi dei suoi acciacchi.
La povera Irene è stata reclutata come guardiana delle piccole belve e, comprensibilmente, non ne poteva più.
Il clou è stato il taglio della torta, con relative foto, che pareva di essere ad un matrimonio, in cui tutti gli invitati erano chiamati a fare la foto con la festeggiata, che, bellamente, infilava le mani nella panna, infischiandosene di tutti, con l’unico pensiero per i regali.
Alle undici, chiama Cicitto e, non so per quale arcano motivo, lui non riusciva a sentire nulla, mentre io sentivo benissimo, avendo perfettamente campo. Più e più tentativi con Cicitto spazientito e depresso, che inveiva contro tutta la tecnologia del mondo. Finalmente, in un angolo freddo e ventoso del terrazzo, si riesce a parlare, anche se, ovviamente, non in maniera esplicita e tranquilla, così come è nostro solito.
Lui si sente molto stanco, e ne ha ben donde, ed anch’io sono stanco di stare lontano da lui: mi manca terribilmente.
Intanto che parlo con Cicitto, mi arriva un messaggio da parte di Irene, che mi chiede se non fosse ora di accomiatarci (non erano queste le parole). In effetti abbiamo già preso fin troppo freddo, abbiamo sentito fin troppi strepiti di bambini viziati ed era anche quasi mezzanotte.
Saluti, ringraziamenti, riceviamo la bomboniera (anche) e ci avviamo verso casa.
E’ stata una serata sbagliata. Una festa per adulti mal assortiti, camuffata da festa per bambini, con tutti i colori e gli addobbi di un’infanzia mai finita. Un mito infantile di riunione di “amichetti” ormai cresciuti, che poco hanno in comune e che nulla hanno da raccontarsi. Tutto molto triste e vagamente decadente, di una fanciullezza che non si vuol lasciare andar via.
Mi sento un po’ stanco. Stanco di vedere coppie, che non sanno gestire la propria rabbia, neanche quando hanno ospiti a casa, che non sanno gestire i malumori dei propri figli, imponendoti di assistere alle loro discussioni, con enorme imbarazzo. Mi chiedo perché si riuniscano tante persone, se poi non segui i tuoi ospiti. A chi serve questa vetrina, piena di tante apparenze, se poi fai vedere che dietro c’è solo un palloncino sgonfio, che penzola tragico.
Sono davvero stanco!
Martedì 29, San Pietro e Paolo. Ed il primo pensiero è per Cicitto: gli mando un messaggio sul cell.
A metà mattinata, passa una signora per una “consulenza”. Dopo pranzo, un’altra. Ed il resto del pomeriggio tra sonnecchiamenti e lettura.
Ci prepariamo, per la serata di festeggiamento del cinquantesimo anniversario dei miei genitori.
Già, mio padre inizia ad entrare in un fermento, quasi isterico sulla scelta del ristorante, perché, a suo dire, non c’è posto per posteggiare, poi, con un giro di telefonate è tutto risolto: mia sorella ed i ragazzi vanno con la loro auto, partendo un po’ prima, per sistemare i fiori e portare la torta; i miei genitori andranno in macchina con i consuoceri; Maria, con Linda e Pietro, daranno un passaggio a me; dopo ci raggiungeranno Venere e Pesce.
Il ristorante è a Giarre, in cui già l’anno scorso eravamo stati con mia sorella: davvero carino, con una splendida terrazza fiorita, ricca di oggetti antichi, raccolti in anni di giri per rigattieri, inoltre, magnifiche piastrelle di maiolica di De Simone Padre, e foto antiche delle storiche corse della Targa Florio, che si correvano tra i tornanti della Timpa di Acireale.
Presi i posti, scattate diverse foto, ordinato. Ma la partita del mondiale incombeva da un maxi schermo ed il signor Turi, con Pesce, erano li, impietriti, tanto da dover portare loro le bruschette, davanti alla TV.
Il solito bailamme, quando si è in tanti, del “chi ha ordinato cosa”. Ma io mi chiedo: “Possibile che non ti ricordi cosa hai scelto dieci minuti fa, mentre ti ricordi benissimo cosa ha ordinato il tuo vicino di posto?” .
Ma tutti, alla fine, gustano la propria pizza (tranne Irene e Pesce, che hanno preso della carne), con una magnifica birra, che il proprietario del ristorante, serve in boccali che sono stati tenuti nel congelatore e che, al contatto con la birra, la cristallizza in deliziosi cristalli di birra ghiacciata che salgono in superficie con la schiuma.
Io, ovviamente, non potevo che chiedere la pizza “alla Norma”, rigorosamente, con melanzane fritte e ricotta salata: ottima!
Arrivati al momento dei regali, oltre il cellulare, comprato da noi figli, è arrivata anche un’enorme scatola, e li ho capito subito: la macchina per il caffè, che era stata lanciata come idea iniziale, è ricacciata fuori, come regalo di tutto il resto del gruppo (dovrà trovare il posto dove metterla … ).
Altre foto, altro giro.
Ecco la torta. Una strepitosa creazione di mio cognato, fantastica alla vista, quanto al palato, ricchissima di oro, sotto forma di rose dorate, anelli e cifre. Ovviamente, altro giro di foto di rito, con tutti. Ed in questo frangente, chiama Cicitto. Mancava proprio lui, a buon diritto avrebbe dovuto esserci, il mio compagno da sette anni, che condivide con me tutto, mancava in questo momento. Mancava a me!!! Ovvio, che gli altri, non conoscendolo neanche, non ne sentissero la mancanza, ma io sì!
Anche lui sta accusando il colpo della nostra lontananza, ma, purtroppo, la Sicilia per lui è off-limit , chissà ancora per quanto.
Saluti, baci, abbracci, e ci avviamo verso casa.
Mi sento stanco, fumo l’ultima sigaretta, leggo svogliatamente qualche pagina della Litizzetto e spengo la luce. Un sonno senza sogni, o meglio, nessun sogno che io ricordi.
La mattina del mercoledì vola velocemente: mi alzo verso le nove e mezzo, mi preparo e vado, con mio padre, in paese, per fare delle fotocopie; poi, passo da mia sorella, per chiedere i soliti dolcini alla mandorla, che tanto piacciono ai miei amici lombardi; tornato a casa, passa Rosetta con la bambina, sempre in continuo movimento incontrollabile ed incontrollato; per arrivare al pranzo.
A tavola, eravamo pochi, perché mancavano i miei nipoti (chi al mare, chi a ripetizione). Mia madre si è sbizzarrita in piatti a base di funghi (i porcini, che loro hanno raccolto sull’Etna quest’inverno): pasta con asparagi selvatici e porcini, petti di pollo al forno con patate e porcini, frittata con porcini. Mancava solo un’insalata con porcini, il melone con porcini e il caffè con porcini, ed avremmo finito in bellezza il pasto, con i porcini che ci uscivano da tutte le parti.
Pomeriggio, tra inedia e tedio e … non so neanche io cosa. Non avevo voglia di niente, neanche di dormire il mio solito pisolo pomeridiano. Ho finito col leggere il racconto che mi ha scritto Lucia, finendolo. Certo, è molto da limare e depurare, ma per una collana tipo Armony, potrebbe andar bene.
Mi sono, poi attardato in balcone a chiacchierare con mia madre. Ho cincischiato con il telefonino nuovo, che gli abbiamo regalato, impostando le funzioni che a loro potevano tornare utili. Come dico sempre: “Mia madre potrebbe litigare anche con il tostapane”, figuratevi con un cellulare!
Mio padre ha apparecchiato per la cena, in balcone e, sul tardi, arrivano mia sorella, Sebastiano, Irene e Salvo, mancava Federica, che era ad una riunione di fine anno, con le compagne di classe.
Già si sentiva aria di tempesta, da quando hanno chiuso gli sportelli dalla macchina. Salvo rampognava, perché voleva uscire un i suoi soliti amici, i suoi genitori che non vogliono che stia tutte le sere in giro, non si sa bene dove e con chi. Lui che rivendica il “DIRITTO” ad uscire, perché lavora alcune ore del mattino al bar, studia ai corsi di recupero, sta facendo il corso di sub e si sta preparando per la patente.
Attività validissime, se non fosse che, per dare una mano al bar viene pagato (seppur poco), i corsi di recupero li deve fare, obbligato dalla scuola, perché è stato rimandato in quattro materie, il corso di sub è una specie di regalo e non un’imposizione e la patente è una cosa utile.
Ma non se n’è potuto venire a una. In balcone tirava un’aria fresca, oserei dire gelida, tanto che ho indossato jeans lunghi e camicia a pesante, la cena è stata un tormento e lui si è rifiutato di mangiare. Ma non è uscito.
Mio cognato aveva portato il suo PC e, dopo cena, abbiamo visto le foto degli ultimi mesi ed io ne ho scaricate un po’ sulla mia chiavetta, anche per farle vedere a Cicitto, che ha chiamato per le undici e non vede l’ora che ritorni a casa.
Ormai manca poco. Venerdì 2, si riprenderà l’aereo verso la Brianza.
Ero stranamente stanco e già, verso le undici e quaranta ero a letto, ma non riuscivo ad addormentarmi. Mi sono rigirato per parecchio tempo, insofferente alle coperte, al caldo, alle zanzare. Sembrava che tutto fosse storto. Ma il problema è che, ormai, questo periodo di ferie incomincia a starmi stretto, ho bisogno di tornare alla mia routine.
Finalmente calo nel sonno.
Il giovedì, mi sveglio abbastanza presto, verso le otto ed un quarto, anche per il rumore che fanno gli addetti alla nettezza urbana ed il vociare dei venditori ambulanti. Mi alzo, con le mie articolazioni irrigidite, vado in bagno, prendo le mie pillole e torno a letto, cercando di riprendere sonno. Ma niente. Tanto vale alzarsi, definitivamente. Mi rado, faccio la doccia, faccio un giro sul computer, in attesa che arrivino Anna e Sebastiano, per andare a Catania, per il controllo settimanale della lesione da radiazioni, con cui sta ancora combattendo.
Ci avviamo verso Catania, per le undici passate. Il solito traffico cittadino, a cui, penso che non riuscirei mai ad abituarmi. Arriviamo in via Plebiscito al vecchio Umberto I°, un ospedale storico, che pur essendo stato riarrangiato (perché dire “ristrutturato” è dire troppo), evidenzia i segni del tempo: una struttura a padiglioni, poco funzionali.
Arrivati all’ambulatorio di dermatologia, attendiamo, vedendo passare ogni sorta di medico, paramedico e affine. Un paio di dottoresse sembrava che fossero alla serata inaugurale de festival del cinema, tanto erano tirate a spolvero. Alcuni dottori sembrava che andassero a zonzo, per riempire il tempo, prima dell’ora di pranzo. E tutti avevano l’aria svogliata di chi si chiede: “Perché proprio a me? … Me ne stavo così bene a casa mia! ... Quasi quasi ci torno …”.
Per fortuna, il medico che ha in cura Sebastiano, mi ha dato una buona impressione, nonostante il contesto in cui opera.
Gli ha fatto un curetage chirurgico, asportando, per quanto possibile, la fibrina che si è formata nella lesione. Lo rivaluterà tra due settimane.
Torniamo verso casa, e dovendo ripassare per il centro di Catania, si evidenzia “L’Antica Arte dello Strombazzamento”, cioè, quella maestria ad usare, in modo assolutamente inconsulto, il clacson.
Ovunque ti girassi suonavano, per qualsiasi motivo e senza nemmeno averne uno: così per non perdere l’allenamento. Devi girare a destra? Strombazzi! Devi cambiare corsia? Strombazzi! Devi salutare qualcuno, anche se non sei sicuro che sia la persona che conosci? Strombazzi!
Insomma si strombazza sempre, in un concerto, pari a quello che si sente negli stadi sudafricani.
Ma pensate più a trombare a casa e non a strombazzare per strada!!!
Arrivati a casa, tutti avevano già pranzato. Quindi, ci siamo sistemati sul balcone a gustare una deliziosa lasagna.
Ma la tranquillità è una vaga speranza. Salvo stava in soggiorno, in semi oscurità, dicendo di studiare Diritto; Federica era seduta in balcone, mentre Irene le agghindava i capelli a mo’ di boccoli … Quando ecco la fatidica domanda: “Mamma, mi accompagni al cinema con le mie compagne?”.
E da qui, si sono aperte le solite cataratte della guerra verbale, dei ricatti psicologici, delle minacce neanche minimamente velate. Orribile!
Non ne posso proprio più! Non vedo l’ora di tornare alla pace della mia vita quotidiana, dove non devo essere armato e corazzato verso tutti e tutto, dove non devo scontrarmi ad ogni piè sospinto, dove non devo scendere a mille compromessi, proprio mentre sono a tavola.
Mi chiedo se non fosse stato meglio se, Adamo ed Eva, anziché una foglia di fico, non avessero usato una pala di fico d’india, cosi da risparmiarci da progenie tanto difficili da gestire.
Alla fine, non so con quale tregua sia finita la battaglia, perché me ne sono andato, veramente irritato.
Mia madre ha deciso che, come ultima sera di permanenza in Sicilia, avrei dovuto mangiare il “Pane Condito”: pane fatto in casa e, appena sfornato, condito con pomodorini, olive, prezzemolo, olio, sale e pepe e poi, ad libidum, si può aggiungere formaggio, prosciutto e quant’altro t’ispira il cuore e lo stomaco. Ma io preferisco la versione classica, calda e fragrante e senza troppe aggiunte.
Nel pomeriggio, ho riposato un pochino. Ero stranamente stanco. Forse, non è poi così strano, viste le continue tensioni che tocca subire, dagli scontri generazionali.
Mia madre con la signora Enna (ormai eletta Zia Enna, ad onorem), impastano il pane e lo cuociono nel forno a legna, come si faceva una volta.
E’ stato bellissimo, assistere all’infornata, le ciambelle lievitate, che vengono prese con la delicatezza con cui si solleva un bambino, ed adagiate sulla pala da forno, per sistemarle sotto la cupola di mattoni arroventati dal fuoco. Prima di chiudere la bocca del forno, si versa un po’ di farina su un po’ di brace rimasta all’ingresso del forno e si recita una preghiera: “Santa Rusalia, janca e russa comu a Vossia”, invocando l’aiuto di Santa Rosalia, affinchè il pane diventi ben cotto e dorato (bianco e rosso come Voi).E’ questo un rito che si rifà a ricordi ancestrali, in cui s’invocava La Grande Madre, o Demetra, o le varie divinità della Fertilità, per avere abbondanza e prosperità.
Intanto si leva un profumo di pane appena cotto, che inebria.
A cottura ultimata, il pane viene condito e, possibilmente, mangiato caldo.
Per la serata, abbiamo sistemato in balcone, ci sarebbero stati tutti i soliti del pranzo della domenica, ma poi, per un contrattempo mancavano i suoceri di Anna.
Inutile dire, che ci sia stata un’altra discussione con Salvo, sull’uscita serale e sui suoi amici, ma come sempre, tutto si è risolto in una bolla di sapone, scoppiata con un urlo.
Passato questo momento, ricomincia Federica, che un po’ scherzando un po’ provocando, dice di voler provare a fumare. “Bene” gli dico, “Vai a prendere il pacchetto e fumane almeno venti”. Lei, con fare di sfida, va e ne prende una, ma non l’accende ed io la sprono a farlo: deve avere il coraggio delle proprie azioni.
“Le scelte della vita non sono come provare un vestito, che se non ti piace lo cambi. Una volta che hai provato è per sempre! Non puoi più tornare indietro, l’esperienza è stata fatta e niente ti restituirà l’integrità che avevi prima. Non si fanno mai scelte per sfida, per provare d’avere coraggio, ma perché davvero si vogliono fare e sapendo a cosa si va in contro. Ed ora se vuoi fare un tiro, sappi che poi non potrai dire ho provato, ma ho fumato.” Testuali parole.
La serata è finita con i regali: mia sorella mi ha regalato un accappatoio, più un set di lenzuola con asciugamani (non so come farò a mettere tutto in valigia, visto che ci sono i dolci, i regali per La Mamma ed altro ancora), Rosetta è passata a salutarmi, con Santo e Fabiana e mi hanno regalato un telo da mare ed una maglietta.
Andando a letto, mi sento un po’ stanco. L’indomani sarà una giornata pesante.
Venerdì 2 luglio. Mi sveglio per le nove, incomincio a preparare la valigia, anche per capire cosa riesco a farci entrare. Come previsto alcune cose non possono fisicamente entrare. Più avanti le recupererò.
Faccio la doccia e vado al Bar, per mangiare la prima e unica granita della stagione: panna sul fondo della coppa, granita alla fragola e ancora panna sopra, accompagnata con una fragrante brioche ancora calda. Una vera goduria!
Quelle che in Sicilia si chiamano granite, non hanno nulla a che vedere con quelle delle altre regioni, dove s’intende, invece, la granatina, Qui ricordo più un sorbetto, qualcosa di cremoso, che non è il gelato: è granita!
Ho incontrato anche Nino, che non è cambiato di una virgola, se non un po’ di pancetta e qualche ruga in più.
Ho salutato la signora Graziella e il signor Turi, Maria e Orazio e sono tornato a casa a sistemare le ultime cose. Siamo davvero agli sgoccioli.
Mia madre avrebbe voluto cucina pasta al pesto di basilico fresco, ma dopo una granita con panna e brioche, non credo che riuscirei a mandar giù molto. Forse un toast.
Mia madre ha messo in tavola, come se fosse un giorno qualunque, cioè dire un pranzo in piena regola, con pasta al pesto, cotolette, insalata e toast.
Come al solito, la discussione dell’ora di mangiare, con Irene che chiede di uscire ed il padre che si lamenta che le figlie non hanno messo in ordine, lei che recrimina che i fratelli sono usciti anche se non hanno fatto nulla in casa … Tutto estremamente noioso! Ma per fortuna è l’ultima!
Alla fine, ho deciso di portare un bagaglio a mano, nonostante la sacca del computer, e così sono riuscito a portar via tutto.
Ci abbracciamo sul cancello di casa: è sempre un momento difficile, specie per mia madre, sul punto di piangere. Ci rivedremo solo tra un anno … ed è lunga. Ma non posso fare diversamente, spostarmi, con pochi giorni di ferie, è sempre problematico.
Comunque, siamo in macchina, mia sorella alla guida, alla volta dell’aeroporto. Intanto che loro posteggiavano, ho fatto il check-in, poi, visto che ancora ci sarebbe voluto parecchio, prima dell’imbarco, ho chiesto loro di avviarsi verso casa: era inutile perdere tempo, aspettando, tanto più che al bar c’era tanto ancora da lavorare.
Ci salutiamo e passo il check-point, questa volta senza problemi. Ultimo saluto dalle scale che portano all’imbarco. Ora inizia l’attesa per il vero ritorno.
Telefono a Cicitto, per avvertirlo, che sono già in aeroporto, con l’idea di risentirci al momento dell’imbarco effettivo.
Intanto, mi guardo intorno, tanta varia umanità: PAZZE in bermuda con enormi fiori di peonia; panzoni, che portano in giro il loro ventre, come fosse un bagaglio a mano; vecchie carampane, con la tinta sbiadita dal sole e dall’acqua salata; i soliti manager, che non fanno altro che telefonare, parlando ad alta voce, programmando acquisti e vendite e controlli della commissione controlli, che tanto conoscono un amico che li avverte per tempo; qualche straniero; qualche siciliano che si considera straniero, considerati gli anni che vive in Germania o chissà dove; ragazzine, che sgami subito, che l’hanno fatto giusto in vacanza, perché si sentono “tanto donna”, eppure un po’ in colpa. Insomma tutto il mondo in una sala d’attesa.
Ed in quest’attesa, ci sono anch’io, con il desiderio di tornare a casa per riabbracciare il Mio Cicitto, con scarsa volontà a tornare al lavoro e con il rammarico di non poter stare per più tempo con i miei genitori. Certo, Cicitto ed io siamo famiglia, ma, a volte, mancano le coccole di un piatto cucinato apposta per te.
L’attesa del volo diventa lunga, già oltre mezz’ora di ritardo per l’imbarco ed altra mezz’ora prima del decollo. Volo tranquillo, in cui si vede la differenza tra la nostra compagnia e le altre: le nostre hostes avevano i segni dell’età sul viso e sembravano delle casalinghe prestate al volo, con i bambini lasciati da poco nell’asili del hangar.
Erano già le sei, e ancora volavamo tra le nuvole della Lombardia. Cavoli, pensavo, non abbiamo recuperato niente durante il volo.
Ma non era così! Si sente la voce del comandante che ci avverte, che per motivi tecnici, sulla pista di Linate, non si può atterrare e che ci DIROTTANO su Malpensa.
Mi si stringe lo stomaco. Penso a Cicitto che avrà già raggiunto Linate e non poterlo avvertire.
Comunque non si può far altro.
Una volta atterrati, ci lasciano sull’aereo, perché non hanno i pullman sufficienti a portarci al terminal.
Quando entriamo in aeroporto, alle sette, inizia il balletto per i bagagli: innanzitutto, capire dove arriveranno e poi, quando. Continuo a telefonare a Cicitto ed a mia madre per rassicurarli e, man mano, il tempo passa davanti a quel rullo trasportatore, su cui arrivavano a singhiozzo ed a caso, le valige di tutti i voli che erano stati dirottati. Quando finalmente, dopo due ore, arriva la mia valigia, mi dirigo, con un folto gruppo che era sul mio stesso aereo, verso l’uscita sette, dove avrebbe dovuto esserci un bus, che ci avrebbe accompagnato a Linate. Ma oltre il muro di caldo e di afa, non c’era un bel fico secco.
Alla fine, arriva un’assistente dell’Alitalia, che in qualche modo ci aveva seguito in queste due ore di tormento, e recluta un pullman, che ci imbarca e si parte. Sono ormai le dieci.
Non siamo ancora entrati in autostrada, che chiamano l’autista dicendo che ci sono altri passeggeri da trasportare. Allora, si ritorna in aeroporto, si attende all’uscita due, per poi sapere che hanno deciso di inviare un altro bus.
Sta volta si parte davvero. Un viaggio di un ora, con l’incubo, annunciato, di un incidente lungo il percorso.
Per fortuna, togliendo un po’ di incolonnamento in prossimità di Cormano, per il resto, è andata bene, raggiungendo Linate alle undici.
Cicitto era li, in attesa, che si sbracciava per farsi vedere, in un piazzale gremito di taxi, autobus, macchine strombazzanti, in un calco afoso e pieno di smog, … ma mi sembrava una scena al rallentatore, dove i rumori si attenuano e tutto diventa irreale, fin chè non ci abbracciamo. E tutto intorno riesplode.
Stanchi, stressati, sudati, andiamo a pagare il posteggio e cerchiamo di uscire dalla zona aeroporto. Che casino, per essere così tardi. Macchine per ogni dove, che sembrava di essere a Napoli nell’ora di punta, alcuni stavano litigando furiosamente arrivando quasi alle mani, forse per un incidente …
Via, via, via … Bisogna andare via!
Entriamo, finalmente in tangenziale e, nonostante l’ora, c’era parecchio traffico, ma si scorreva.
Arrivati a Cernusco, ci fermiamo a prendere un Kebbab da asporto ed andiamo a casa.
Un caldo micidiale, sicuramente molto più che in Sicilia. Disfo la valigia, intanto che Cicitto fa una doccia, poi tocca a me rinfrescarmi e ci sediamo a mangiare il nostro kebbab.
Ora, sembrava che la fatica di quest’orribile pomeriggio fosse finita, con l’acqua della doccia.
Finalmente a casa!!!
Ma non ci si può attardare. Sabato mi aspetta il turno di mattina, sperando di trovare un reparto tranquillo.
Ci mettiamo a letto, ma non è facile fare un sonno tranquillo. Continuavo a svegliarmi, addirittura, devo aver urlato nel sonno, m’era parso che qualcuno stesse entrando dalla finestra semiaperta, ma forse era solo un po’ di corrente d’aria.
Insomma l’incubo non era ancora finito.
Mi sveglio definitivamente alle sei, mi preparo e vado al lavoro, dopo aver baciato Cicitto, ancora immerso nel sonno. Esco di casa … Ora davvero, queste vacanze di merda sono finite!!!
Note a margine:
-La seconda notte, che dormivo nel mio lettino da educanda, per poco non mi precipitavo dal letto, non avendo calibrato ancora bene le misure.
-Quando ho passato la giornata con Lucia, tenendo la macchina fotografica in tasca, inavvertitamente, questa si è accesa, portando in fuori l’obbiettivo, creandomi una ”erezione digitale”, che si notava attraverso i pantaloni. Poco male: dava l’impressione di una buona salute sessuale, il che non è molto lontano dalla realtà.
Vi avverto subito che la cosa è lunga.
Mettetevi comodi, prendetevi il tempo che vi occorre e apprestatevi a leggere il resoconto di questa vacanza. Altrimenti organizzatevi a leggerla a puntate.
Inizio …
Quando si dice una vacanza di merda …
Sabato mattina, sveglia alle sette e mezzo. Un po’ assonnato, preparo le ultime cose, faccio la doccia e poi Cicitto mi accompagna in stazione … e già a Cernusco incomincio a sentire premere nell’intestino, ma come fare … Te la tieni!
Giunto a Milano, la solita trafila: dalla Garibaldi, in Metro, fino alla Centrale, quindi attesa che arrivi il bus navetta per Linate … ed anche qui l’intestino che preme. Cerchi di camminare a piccoli passi, la sigaretta che stimola ancora di più la peristalsi. Insomma, una tortura!
Arrivo in aeroporto con notevole anticipo per il check-in: devo aspettare, senza poter lasciare la valigia da nessuna parte, l’intestino che preme, ma andare in bagno vorrebbe dire entrare con valigia, sacca per il computer e contenitore refrigerato per i farmaci. Impossibile!
Cerco un posticino tranquillo per sedermi in punta di sedia a leggere il mio “Montalbano”, ma era una tortura: continuavo a muovermi poggiando ora su un gluteo ora sull’altro per non gravare sullo sfintere ormai sfinito. Per fortuna, avevo scelto una lettura divertente che mi permetteva di distrarre l’attenzione dal problema impellente.
Alle dodici e mezzo mi muovo alla volta del check-in e qui mi fanno delle storie per i farmaci ed il loro contenitore con le mattonelle refrigeranti … per fortuna il santo protettore dei fancazzisti mi ha assistito e piuttosto che recuperare la valigia per farmeli sistemare dentro, si mettono d’accordo tra loro e tutto diventa possibile. C’è da dire che io mi sarei battuto fino allo stremo del mio povero sfintere compresso dall’attacco delle feci impellenti per non caricare i miei farmaci nella stiva con i bagagli: in caso di smarrimento del bagaglio avrei potuto fare a meno delle mutande ma non della mia chemioterapia.
Finalmente Libero!!!
Corriamo in bagno! Anche perché, stranamente era come se il mio intestino avesse avvertito il “via libera” e cominciasse a scalpitare come non mai. Trovato il bagno, poggiate tutte le borse, grave decisione: come sedersi su quel water sconosciuto?! Ma la premura dei miei visceri ha deciso per me e mi siedo e mi libero…
“Sempre sia benedetto l’inventore del gabinetto” AMEN!!!
Ora leggero e sereno mi approssimo al cancello d’imbarco.
Per passare il check-point devo togliere l’orologio, l’anello, la cintura, mettere il cellulare nella borsa, togliere dalla borsa il computer, togliere il giubbotto, tenere in mano il foglio d’imbarco … insomma un lavoro da vero direttore d’eventi, a metà strada tra l’equilibrista e l’archivista.
Ma non basta! Passato il metaldetector comincia a suonare. “Torni in dietro … Si tolga le scarpe … se vuole ci sono dei calzari monouso … ” . Ma chi se ne frega dei calzari! Fatemi passare e finiamola così!
Tante facce, tante famiglie con bambini e, anche ad uno sguardo superficiale, ti accorgi di chi siamo i siciliani e chi no. Non è nemmeno necessario sentirne l’inflessione: basta solo la faccia. I lineamenti tipici dei miei conterranei, l’attaccatura dei capelli, la stessa postura.
Per non parlare della concentrazione di “PAZZE” che ho cominciato a trovare già sul treno del mattino: sembrava una diaspora del 12 Giugno, un avanzo del Pride, disperso tra Brianza e Milanese, alla ricerca di qualche orgoglio sopito.
L’aereo parte con oltre mezz’ora di ritardo.
Io siedo vicino ad un finestrino di coda, accanto a me una coppia leccatissima, che tira fuori da una fusta del free-shop una catasta di giornali di gossip lei di economia lui … Ma che me ne frega: io ho il mio “Montalbano”, che continua a farmi sbellicare dal ridere.
Per leggere, ormai, sono costretto a togliere gli occhiali ed è tutto un su e giù di lenti per non dover tenere il libro ad una distanza siderale, impossibile nell’angusto spazio del sedile di aereo.
Il volo, nonostante fosse Alitalia, si serviva di aeromobili Air-One, le hostes erano piuttosto insignificanti, gentili per contratto e con quel sorriso su faccia rifatta, che non capivi se fosse intenzionale o opera del chirurgo, e dire che erano anche giovani: che necessità avevano di ricostruirsi la faccia?
Volo sufficientemente tranquillo, con il solito piccolo rinfresco a base di salatini e piccolo bicchiere con bibita e, cosa encomiabile, assieme al solito tovagliolino di carta ed alla solita salviettina rinfrescante, hanno consegnato una bustina di gel disinfettante per le mani.
Ormai in dirittura d’arrivo, con l’Etna alla nostra sinistra, magnifica con il suo pennacchio di fumo e le striature bianche che non sai mai se si possa trattare di neve i cenere, inizia la discesa …
Un momento difficile!
Non capisco se fosse per la presenza di “termiche” o di vento o della scarsa esperienza dei piloti o chissaddio, sembra quasi che l’aereo stesse per precipitare: dopo numerosi sobbalzi e scuotimenti laterali, un improvviso abbassamento di quota, seguito da una picchiata, che solo i bambini a bordo hanno vissuto come un gioco tipo montagne russe. Atterraggio altrettanto traballante con frenata brusca inclusa nel prezzo … ma finalmente siamo a terra: il sole splende la temperatura e gradevole e si sente l’odore del mare. Sono in Sicilia!
Appena a terra, chiamo Cicitto per tranquillizzarlo. So già che per lui sarà un periodo difficile. Ma è ormai un anno che non vedo i miei…
Ritiro bagagli lungo, nonostante la nuova struttura aeroportuale. E nell’attesa sembra sempre di essere al 12 Giugno, che quando non li vedi li senti, con le vocine di tre toni più alte di qualsiasi umana possibilità, ora con straordinarie vocali aperte che solo il siciliano riesce ad avere.
Ad accogliermi mia sorella e mio cognato. E ci incamminiamo verso casa.
I paesaggi brulli e bruciati di una terra assetata da mesi di siccità e, quelle poche volte che ha fatto cattivo tempo, l’ha fatto davvero cattivo, con grandinate ed alluvioni per l’impossibilità della terra riarsa di accogliere le non poche gocce.
Chiacchiere nel tragitto, m’informo sui miei nipoti e sulle loro fatiche scolastiche, che, a quanto pare, non sono state poi così faticose, nel senso che non ci hanno messo così tanto impegno, tant’è che Irene è stata rimandata a settembre con tre materie e Salvo, se qualche santo lo protegge, andrà settembre con quattro se non addirittura rischia la bocciatura. L’unica che si salva è Federica, impegnata nell’esame di terza media, ma che sembra non abbia problemi.
A casa, baci e abbracci, sistemo la valigia sul letto della mia camera da “figlio di famiglia” con il “lettino da educanda”, i miei famigerati farmaci in frigorifero e s’incomincia con le frasi convenevoli, per poi passare ai pettegolezzi su tutto il vicinato. Per lo più è un “Bollettino di Guerra” su chi è morto e su chi è malato grave: tumori e infarti sono all’ordine del giorno, non mancano ictus, aneurismi dell’aorta o celebrali (a scelta), qualche sclerosi multipla, tralasciando incidenti di vario genere e morti per cause naturali (vedi vecchiaia).
Il tempo, sebbene caldo non sembri dei miglior e lo faccio notare a mia madre, che mi rassicura che qui non piove da mesi e che non c’è nulla da temere…
Le ultime parole famose!!!
Quella stessa notte è arrivato una sorta di tornado, che ha scosso le persiane, fatto sbattere le porte e ribaltare i vasi di pomodori e di basilico che mio padre ha voluto mettere sul balcone (… “così non devo scendere nell’orto per farmi un’insalata” …). In tutto questo trambusto, mia madre dormiva…
La domenica è giorno di pranzo collettivo, nel senso che, per tradizione ormai consolidata da diciotto anni e più, tutta la famiglia, con consuoceri e collaterali e affini, si riunisce, ora a casa dei miei ora a casa dei consuoceri.
Si prepara il tavolone in cucina. La casa dei miei genitori è strutturata per essere enorme e riusciamo a sederci a tavola comodamente anche in quindici, ma questa volta eravamo solo dodici (si sta più larghi).
Ritrovo Venere e Pesce (ora si chiama così, ma è stato Pulce e anche Cutupiddu), entrambe più in carne e forse meno felici, Maria che cerca al solito di fare da mediatore e i suoceri di mia sorella, che, come anche i miei genitori, sembrano sempre più vecchietti.
Il signor Turi, come al solito inizia il pranzo con le sue solite battute: “Buon magiamento a tutti” (che tradotto dal siculo, vuol augurare buon prurito a tutti, alludendo a pruderie inguino-sessuali) e poi “Mangiate, perché un giorno sarete mangiati” (sottintendendo che solo gli altri saranno mangiati, cioè morti, ma non lui).
Piccole sciocchezze, che se non dicesse, staremmo in attesa, lasciando freddare il pranzo.
Pranzo ottimo, con ogni ben di dio, per almeno venticinque persone, perché mia madre dice: “… e se poi a qualcuno ci venisse il desiderio,’chè dobbiamo fare il mangiare contato?!... “
Si comincia con pasta alla Norma (salsa fresca di pomodori e basilico accompagnata con melanzane fritte e ricotta salata grattugiata al momento), a seguire pollo al forno con patate e pomodorini, cotolette, accompagnate da insalata fresca e melanzane panate, vino, acqua, dolci gentilmente offerti dal signor Turi, caffè e chiacchiere a volontà. Il tutto con il sottofondo delle corse del MotoGP.
Finito il pranzo, ad un orario improbabile del pomeriggio, io mi ritiro in camera dove finisco di leggere il mio libro e decido di provare la mia chiavetta internet della TIM comprata apposta per il viaggio per fare in modo di potermi commettere con Cicitto senza dover passare dai computer degli altri, tra l’altro, prima di partire, facendo una prova di connessione tramite messenger, mi accorgo che il mio PC non riceve i suoni, ma che purtroppo, non si può aggiustare così facilmente, ma bisognerà inviarlo alla “casa”, tanto più che è ancora in garanzia.
Comunque, la connessione con la chiavetta è del tutto impossibile.
Giramento di coglioni!
Cinquantaquattro euro buttati al vento e l’impossibilità di vedere il Mio Cicitto.
Cerco se ci siano delle reti Wireless disponibili, senza password di protezione a cui agganciarmi. Ci sono ma dalla mia camera non si collegano. Provo a girare per casa con il PC in mano come un rabdomante impazzito, anche riprovando con quella schifida chiavetta TIM, che avevo voglia di catapultare giù dal balcone. Quand’ecco il miracolo! Non la TIM ma una rete Tiscali, con una ricezione bassissima, ma che mi permette di connettermi, nell’angolo più remoto del gigantesco soggiorno, tra uccelli impagliati, orologi a pendola fermi da anni, trombe di tritone ed altre conchiglie, la collezione di bambole con il volto e le manine di ceramica ed un’infinità di altre ciarpamerie collezionate in tanti anni di mia assenza dalla casa natia.
Ma chi se frega! L’importante è riuscire a comunicare!
La sera stessa ci mettiamo in contatto e sembrava una situazione paradossale: io che parlavo, ma non sentivo, lui che sentiva ma che parlava a gesti ed era costretto a scrivere ed io che dovevo aspettare di leggere per poter rispondere. Intanto, comunque ci vedevamo, ed era bellissimo!!!
Il lunedì 21, inizio a leggere il nuovo libro (ne ho portati quattro: uno di Camilleri, uno di Busi e due della Litizzetto). Ho preferito quello di Aldo Busi: una sorta di reportage di viaggi e vacanze al limite del paradosso, raccontate sempre con la sua maestria linguistica e il suo acido sarcasmo nei confronti della vita e degli uomini.
Oggi è giornata di “parmigiana di melanzane” e mia madre, come sempre, ne ha preparato per un esercito.
Ottima e abbondante ed io abbondo nelle porzioni, tanto che mi sento un po’ appesantito, ma sottovaluto, pensando che non sono abituato alla cucina robusta, che il mio stomaco sia irritato dai farmaci e che, comunque, basterà un buon protettore gastrico e un po’ di tempo per la digestione e tutto si risolve. Tanto che la sera faccio il bis con la parmigiana rimasta, che scaldata è ancora più buona che a pranzo.
Notte di dolore!
Un dolore viscerale sordo e continuo, con accenni di nausea, sentore di dover andare in bagno, ma non riuscivo a far nulla.
L’indomani ero un po’ uno straccetto, il dolore, prima prevalentemente gastrico ora si era trasferito anche all’addome, e nemmeno i gastroprotettori hanno efficacia. Un grave sospetto: “… e se fosse un’ulcera duodenale, sopita fin ora e scatenata dal cibo e dal vino robusto …”.
Mi tengo mentalmente pronto a chiedere di essere portato al pronto soccorso se il dolore non si attenua.
Intanto, pasta in bianco, con le solite porzioni di mia madre, cioè per almeno tre persone.
Nel pomeriggio cominciano i primi segni di dissenteria. Alleluia!!!
Non certo per la dissenteria che mi torceva i visceri, ma perché, finalmente, ho potuto fare auto-diagnosi di enterocolite infettiva, presumibilmente di natura virale.
Sono un GENIO!
Inutile tediarvi con particolari tecnici sul decorso della malattia. Riso in bianco con porzioni da camionista, Disseten e fermenti lattici.
Ovviamente, niente mare. Ma mi consolava il fatto che il tempo non fosse dei migliori, tanto da dormire con il piumone e di giorno tenere jeans lunghi e camicia a maniche lunghe.
In compenso non ho fatto altro che starmene sdraiato, sotto il mio piumone, al calduccio, tra la lettura ed il dormiveglia, alzandomi solo per andare in bagno o per mangiare la mia mega porzione di riso in bianco.
In verità, quando si apriva qualche spiraglio di cielo terso, era di un azzurro travolgente ed il sole era davvero caldo, c’era anche un’arietta fresca che quasi pareva di essere in primavera, specie la sera.
Cicitto, intanto, mi ragguagliava sul meteo della Brianza e della Bergamasca: ha piovuto anche lì, con relativa abbassamento delle temperature.
Posso proprio dirlo: un periodo di merda!
Poche escursioni, fuori dalla casa avita: una capatina al supermercato per prendere del prosciutto cotto, in previsione di uno svezzamento dal semplice riso in bianco, con relativa burrasca verbale tra mio padre e mia madre su sciocche incomprensioni di tipo logistico.
Diventare vecchi fa diventare più insofferenti. E come sarò io alla loro età?
Sicuramente un gran rompicoglioni con tutte le mie manie da precisetti.
Giovedì pomeriggio, in pieno trip nazional-calcistico, per la partita dell’Italia, non so neanche con quale squadra, con mia sorella e una delle nipoti al seguito andiamo a comprare il regalo per il cinquantesimo anniversario di matrimonio dei miei genitori. In effetti, la data dell’anniversario è già passata da un pezzo, ma si è deciso di festeggiarla, tutti insieme, ora che ci sono pure io.
Dunque, ci troviamo a guidare per strade completamente deserte, al limite dell’irreale, entriamo in un mega negozio in cui tutti gli addetti alle vendite sono davanti ai maxi schermi, tutti sintonizzati sullo stesso canale, dove una Nazionale deludente chiude un’avventura deludente in terra d’Africa. Ed il mio commento è: “Toglietegli gli stipendi!!!”. Se l’unica cosa che interessa loro sono i soldi e la popolarità, colpiamoli su questo. Queste signorine del calcio, che non fanno altro che GIOCARE, sputtanandosi tra una discoteca e l’atra, ma senza curarsi di fare ciò per cui sono profumatamente pagati, vanno mandati tutti a casa, a LAVORARE sul serio, altro che scuse e giustificazioni da tifoso.
Alla fine, a tutti coloro i quali si disperano e si avviliscono per questi nullafacenti, che cosa ne viene in tasca? Spendono paccate di soldi in decoder satellitari per vedere le partite, altri soldi in biglietti e trasferte negli stadi, si ammazzano e si scannano, in nome di un ideale di squadra, che alla fine non è condiviso dagli stessi giocatori, che non vedono l’ora che ci sia qualcuno che li paghi di più per raccattare baracche e burattini e partire per nuovi lidi, verso i quali provare lo stesso disinteresse che provavano prima.
Finita questa invettiva calcistica, torniamo al regalo da comprare e, questa volta, posso decidere anch’io.
Prendiamo un telefonino, giusto giusto per loro: numeri grandi, sportellino richiudibile e facilità d’uso, buona marca e buon prezzo.
Una tantum mi sento contento di aver potuto scegliere.
In serata, sono stato invitato da Maria ad uscire con un gruppo di vecchi amici.
Accetto, anche perché pare che la terapia d’urto abbia sortito effetto e, tranne un lieve risentimento addominale (pare di aver preso un pugno nella pancia) e un po’ di meteorismo, per il resto mi sento abbastanza bene.
Passa a prendermi per le otto e venti ed in macchina c’è Alessandra: uguale a sempre, o quasi. Come su tutti, il tempo passa e lascia il segno, tanto più su chi ha avuto grossi dispiaceri.
Arrivati in piazza, posteggiamo e troviamo Sara, Linda e fidanzato. Aspettiamo solo l’arrivo di Alfia con marito e figlie. C’è fresco e così entriamo da Mario “Alla Mansarda”, anche perché l’idea è di fare una sorpresa ad Alfia.
Eccoli. Abbracci, baci. “Sei sempre la stessa … Come sei cambiata … Ti trovo più magra … Ti trovo più in carne …” Il festival di tutte le frasi fatte che si possono dire quando rincontri un vecchio amico. Quando la verità è che siamo tutti cambiati … E come potremmo non esserlo!
Inclemente il tempo passa sulle nostre vite.
E tanto più tempo passa tra un incontro e l’altro e tanto più ti sembra drastico il cambiamento.
Facciamo battute salaci, scattiamo foto ricordo, cerchiamo nella memoria gli episodi più divertenti, si ordina da bere e da mangiare … e tutto fila liscio, fino a quando non si comincia a tirare fuori i propri dolori e propri malesseri.
Ed è così che scopro che Alfia ha perso il padre e Alessandra la madre ed entrambe ne soffrono ancora.
Ma la serata volge al termine. Domani è Venerdì, ancora una giornata lavorativa.
Quindi saluti, abbracci, promesse di non far passare così tanto tempo prima di rivederci … insomma tutto il campionario.
Riaccompagniamo Alessandra a casa e passiamo a prendere Linda, che si era attardata con il fidanzato, il quale ci fa l’onore di mostrarci il suo nuovo compagno di gioco: un IGUANA. Sì, non sto scherzando, un vero iguana in squame, zampette e coda, ancora un cucciolo che dovrebbe diventare, sempre che sopravviva, di un metro e mezzo di lunghezza.
La domanda sorge spontanea: “Che cacchio te ne fai di un iguana?” … “Non potevi continuare a giocare con il piccolo lucertolino che hai nelle mutande, senza scomodare quella povera bestiolina tropicale?”…
Ma queste sono domande a cui non avremo mai una risposta. Forse, un giorno, Voiager o Quark arriveranno a risolvere il mistero.
Cicitto l’ho sentito al telefono intanto che eravamo in macchina. Ci sentiamo almeno due volte al giorno, grossomodo agli stessi orari di sempre, e , quando i rispettivi PC lo consentono, riusciamo anche a vederci, comunicando con lo strano linguaggio di scrittura e gesti a cui ci siamo dovuti adattare.
Venerdì 25, giorno dedicato a Lucia.
Mi sveglio sufficientemente per tempo, essendomi addormentato tardi (le cinque del mattino, circa).
Mi sistemo ed aspetto che venga a prendermi Lucia.
Negli ultimi mesi, ha vissuto un periodo piuttosto difficile: prima la perdita della madre, che seppure anziana e un po’ rompiscatole, ha comunque lasciato il segno; poi la morte dell’ex marito, che tanti problemi le aveva causato, ma la sofferenza dei figli per la sua dipartita è stata anche la sua; poi, per finire in bellezza, un accidente tra capo e collo, nel vero senso della parola. La investono con la macchina, bloccata con il collare per un bel pezzo; ma non è finita: ecco che arriva un ictus che la blocca a casa per sei mesi, tra ospedale e riabilitazione. Per fortuna, si è risolto abbastanza bene, non lasciando altro strascico che un a lieve balbuzie, specie quando è sotto tensione.
Io ho seguito tutto il susseguirsi degli eventi a distanza, sentendoci per telefono e cercando, per quanto possibile di rincuorarla e rassicurarla sul buon esito della situazione.
Ora la rivedrò, dopo un anno di distanza e tanti eventi di mezzo.
E’ sempre lei, a parte la balbuzie e una sorta di lieve infantilismo, ma lei ci ha sempre giocato a fare la sciocchina per far fare a me il genio.
Baci, abbracci, commozione. Saliamo in macchina e incomincia un balletto: “… Scegli tu … no scegli tu … ma tu dove vuoi andare?... a te dove piacerebbe?...”. Estenuante, tanto che mi spazientisco … ed è in quel momento che mi rendo conto che lei è davvero vulnerabile. Cambio tono.
Alla fine, decidiamo di fermarci a mangiare all’Atlantis, sul lungomare di Fondachello.
Prima di entrare ci scambiamo i regali, poi cerchiamo di capire dove poter mangiare, ma inizia tutta una diatriba con la signora del ristorante, di cui non capivo la ragione, su dove fosse posizionato lo scorso anno il ristorante. Alla fine, si risolve la controversia, o forse rimane solo in sospeso, e ci si fa accomodare a bordo piscina. Ordiniamo, chiacchierando amabilmente, come due vecchie comari in vacanza. Il cibo è buono, il posto è bello, il cielo è limpido e l’aria è calda, c’è anche un bel ragazzo che fa il bagno ed una bagnina che è palesemente lesbica.
Un bel pomeriggio, seduti sotto l’ombrellone, con il riverbero dell’acqua, parlando di tutto un po’.
Alla fine, lei vuole offrirmi il pranzo, ma non vuole essere lei a pagare e mi passa sotto banco una banconota. E’ inutile che provi a ribellarmi a queste bizzarrie: le voglio troppo bene! E cosi chiediamo il conto ed io pago, in sua vece e lei è contenta.
A questo punto andiamo a casa sua, che io avevo visto solo da fuori, prima che lei la comprasse.
In casa ci sono Valeria con una sua amica e Giovanni.
Entrando, devo ammettere, ho avuto un momento di smarrimento: purtroppo me l’aspettavo un po’ più grande, mi aveva detto che fosse piccola, ma non pensavo effettivamente tanto piccola.
Come le ho anche detto, lei si è inventata una casa che non c’è! Non ci sono spazi, non c’è molta luce, tutto è concentrato in pochi metri quadri. Da una scaletta ripida si passa al piano superiore dove c’è la cameretta dei ragazzi e da qui si accede ad un bagno piccolino e tramite un’altra scalettina si arriva al piccolo terrazzo dove si trova una verandina che fa da lavanderia e ripostiglio e, in un angolo del terrazzino, c’era Luna, il loro cane.
L’umido, che un tempo aveva cercato di eliminare era di nuovo riaffiorato, rovinando la carta da parati che ora appassiva sulle pareti. Tutto aveva un non so che di decadente, con una vena creativa, che aveva altresì qualcosa di distonico.
Ma lei è così felice ed orgogliosa della sua casetta, da amare anche la macchia di muffa che lentamente sta degradando l’albero che lei ha dipinto sul muro in uno dei suoi attacchi creativi.
Come disilluderla?!
Ho, comunque, insistito che al più presto chiami un muratore che le sistemi il problema dell’umido, prima che arrivi l’inverno.
I ragazzi escono e noi ci fermiamo a guardare le foto sul computer. Poi si decide per un giro in macchina e, sul percorso, diamo un passaggio a Valeria ed un’altra delle sue amiche (che a me pare decisamente gay).
Essendoci una messa di suffragio per la madre e l’ex marito, Lucia decide che Valeria debba andare, in rappresentanza di tutta la famiglia e lei, carinamente accondiscende. Io, notoriamente anticlericale, non capisco questa necessità di dare soldi al parroco, solo per nominare un nostro defunto in una normale messa di routine: fammi almeno una cerimonia solenne, con tanto di elogio e cori e canti e tutto il cucuzzaro. Ma,ovviamente, la mia idea non è condivisa da una fervente cattolica, qual è Lucia.
Comunque, noi lasciamo Valeria sul sagrato, per assistere alla messa, mentre noi ce ne andiamo in giro per via Gallipoli e poi Corso Italia, fino a raggiungere piazza Carmine, dove ritroviamo Valeria, appena uscita da una messa ultra rapida: padre Diego avrà avuto altro da fare.
Ho fatto diverse foto per tutta la città e con loro e, alla fine, ormai le sette passate, mi riaccompagnano a casa.
Le stringo fortissimamente, tutte e due, e mi sembra quasi di lasciare due bambine spaurite. Valeria è già una donna fatta, alta, fisico atletico, bei lineamenti, aspetto vagamente lesbo, ma in fondo, nonostante i suoi ventuno anni, è rimasta una bimba. Mentre Lucia, che tempo fa aveva acquistato forza e carattere, ora sembrava fragile, vulnerabile, persa in un mondo fantastico in cui tutto è a misura di Lucia, fatto di particolari che non fanno parte di un disegno generale, in cui l’orizzonte è tutto compreso nella finestrella che da su un giardino che non c’è. Lei è la poesia fatta persona, che non segue regole grammaticali, né canoni sintattici, solo lo slancio della fantasia e dell’illusione.
Ci salutiamo sul cancello e mi sfugge un lungo sospiro: commozione, o rimpianto per averla lasciata andare da sola, ancora una volta, ad affrontare le sue paure …
Rientrato a casa, mia madre mi dice che sta sera, per cena ci saranno arancini di riso, fatti da mio cognato.
Attendiamo che arrivino anche Anna, Sebastiano, Irene e Salvo per metterci a tavola per cena. Federica è partita con una sua amica e la famiglia di lei per Vulcano, dopo tanto dibattere se fosse il caso. Ma, alla fine, mia sorella ha ceduto alle pressioni della figlia.
Chiacchiere e discussioni sulla mala sanità e sull’incidente occorso a Sebastiano, nell’impianto del ICD. In effetti, di incidenti ne sono capitati troppi, tanto da mettere in dubbio le leggi della statistica. Ora si ritrova con una sgradevole lesione da ustione da radiazioni sulla schiena, che, probabilmente, guarirà tra molti mesi.
Andati via i ragazzi, mi metto in contatto con Cicitto, tramite messenger, con il nostro articolato sistema di comunicazione, e mi sono anche eccitato, intanto che parlavamo … e gli e ne ho dato la prova via web …
Divertente! Ma lui si è imbarazzato ed abbiamo troncato il piccolo gioco che avrebbe potuto essere.
Tornato in camera, ho dato libero sfogo alla fantasia. Ma non è la stessa cosa. Fare l’Amore è un’altra cosa … certo meglio che niente!
Sabato, altra giornata di relax.
Mi sono attardato nel letto ed il resto della mattinata è volato stando un po’ al computer e ripensavo alla giornata di ieri.
A pranzo, abbiamo mangiato stando in balcone, sebbene ci fosse un po’ d’arietta, si stava bene.
A fine pasto, si è intavolata una discussione sulla difficoltà di comunicazione.
Ho cercato di far notare come la comunicazione tra genitori e figli fosse improntata su dei canoni di scontro, di tensioni non risolte, in cui si usa l’aggressività perché non si ha il coraggio della propria emotività, in cui le affettività vengono castrate e negate per paura di esporsi, per timore di soffrire se non adeguatamente corrisposte. Colpa è anche dei nostri genitori, che non sono mai stati educati a comunicare. Ma questa non può e non deve essere una giustificazione. Se c’è stato un errore nelle generazioni precedenti, perché noi dobbiamo reiterarlo, se sappiamo benissimo che ci sono delle vie alternative, se sappiamo che ci sono dei mezzi che ci permettono di superarlo e risolverlo.
Ogni giustificazione è buona per tirarsi indietro. E’ così facile dare sempre la colpa a qualcun altro o a qualcos’altro, o pensare che in qualche modo tutto si aggiusterà, “se ce l’abbiamo fatta noi cela faranno anche i nostri figli”. Ma il punto è: noi ce l’abbiamo fatta davvero?
Sempre in conflitto con noi stessi, ci ritroviamo a combattere con tutto ciò che ci circonda. Lottiamo con i nostri figli, perché loro non commettano i nostri stessi sbagli, ma quali sono i modelli che stiamo dando?
Abbiamo paura delle proprie paure! Ed il timore di affrontarle ci blocca.
Se vogliamo davvero bene ai nostri figli, facciamo un piccolo sforzo di volontà ed affidiamoci a qualcuno, che ci possa dare le chiavi per aprirci finalmente al mondo.
Chi ha orecchie per sentire lo senta!
Nel pomeriggio è venuto a trovarmi mio cugino, con la bambina e mia zia Tina.
Ci siamo fermati a chiacchierare, intanto che Eleonora, smilza e con lo sguardo acceso, correva per il balcone e mia madre e la sorella si raccontavano gli acciacchi ed i malanni.
Frattempo la temperatura si faceva più fresca ed io che ero in calzoncini e maglietta ed infradito, ho cominciato ad avere freddo.
Mi fa sempre molto piacere ritrovare mio cugino Salvo, con il quale siamo cresciuti da piccoli come fossimo fratelli, abbiamo condiviso tutte le stupidate tipiche dei ragazzini, fino a che siamo un po’ cresciuti e, necessariamente, abbiamo fatto percorsi diversi. Per anni lui è stato un puttaniere incallito, arrivando ad avere anche tre ragazze nello stesso periodo. Poi si è dato una ridimensionata, ha messo la testa a partito: ha preso il diploma che non aveva raggiunto quando era in età da studio,ha trovato un lavoro in università, è diventato padre e, sicuramente, è questa la veste in cui lo vedo meglio: attento, premuroso e responsabile. Bravo Salvo!
Dopo cena, sono passati a trovarmi Tiziana ed suo compagno Giuseppe.
E’ sempre carina, tenera, con quella sua fragilità e modestia che l’hanno sempre contraddistinta.
Abbiamo ricordato i brutti momenti vissuti nei mesi in cui sua mamma si era aggravata ed in fine si è spenta, dopo una lunga agonia, per il tumore che l’ha devastata.
Ora lei sta cercando di ricostruire la sua vita, anche se con difficoltà, che ancora le si frammezzano. Ma, per fortuna non è da sola.
Andati via loro ho sentito il Mio Cicitto al telefono e poi abbiamo ritentato la connessione web, ma la tecnologia ci ha beffati, interrompendosi il collegamento in continuo, tanto che, alla fine abbiamo desistito e ci siamo dati la buona notte.
Ma mica ho preso sonno. Sono rimasto sveglio a girovagare sul computer fin oltre le tre e poi a leggere, anche se con un vago senso di torpore, che mi costringerà, l’indomani, a rileggere diverse pagine.
Ed è di nuovo domenica.
Essendomi addormentato così tardi, mi sono svegliato altrettanto tardi.
Mi sono crogiolato nel letto e poi in bagno per barba e doccia. Bevuto il mio Actimel, assunte le mie pillole, gustato il caffè, mi sono preparato per andare al bar, da mio cognato.
Come ogni domenica, il rito del pranzo collettivo non si può saltare.
Intanto che andiamo in macchina, mi chiama la “mamma adottiva”, per sapere della mia dissenteria e per raccontarmi le ultime cose, in quel di Mondonico.
Entrato al bar, incrocio subito Pesce con sua nipote Lisetta. C’è parecchia gente in un via vai di vassoi di paste e pasticcini, di torte gelato e granite, mangiate alle dodici e mezzo (“… tanto si va a tavola tardi, intanto chiudo un buco …”). Passo in laboratorio dove c’è un gran fermento: torte da decorare, pasticcini da inzuppare nel cioccolato, brioches da infornare, polvere di farina e zucchero a velo. Venere passa più volte chiedendo dei cannoli, al volo, Maria che sollecita le torte … un vero marasma, nel quale si muove con gran disinvoltura Orazio, collaboratore ed amico di Sebastiano, entrato nel laboratori quando era ancora un ragazzo e non ne è uscito più: più che un collaboratore, una vera spalla su cui poggiare.
Sentendomi d’impaccio, stavo sulla porta, ma mia sorella mi recluta a dare una mano con la piccola pasticceria da riporre nei vassoi per il banco espositivo. A me si unisce anche mia madre, molto più esperta, per tutte le ore passate a dare una mano nei momenti di necessità.
Mio nipote Salvo, visti i risultati scolastici, è stato reclutato per il bar e pare tutto compreso nel ruolo.
Verso la una, s’innesca una discussione tra genitori e figlio, a cui non voglio assistere, in cui, come sempre, c’è un problema di fondo di comunicazione: urlata, ognuno dalle proprie posizioni, senza la volontà di fare il ben che minimo movimento di avvicinamento.
Ormai è quasi pronto per andare a tavola, e chiamo Cicitto, altrimenti chissà a che ora mi sarebbe stato possibile, conoscendo i pranzi della domenica. Ovviamente, non mi posso dilungare, né posso esplicitare tutto ciò che stava succedendo. Ma ci risentiremo dopo.
Menù del giorno: panzotti alla domenicana in salsa di noci, arrotolato di pollo arrosto con funghi e piselli, contorno di cuori di carciofi panati e frittelline di patate, vino bianco e rosso, acqua, bibite varie, frutta (anguria, pesche e mele) e, per finire, dolci vari più un semifreddo alle mandorle coperto di cioccolato.
Sento, nuovamente, tornare un senso di rigurgito da indigestione.
La conversazione del pranzo è rimasta incentrata sui mondiali di calcio, di cui conoscete già la mia visione, per poi finire con i problemi di Venere.
Ho cercato di spiegarle che le crisi di ansia e di panico vanno superate sia con l’aiuto farmacologico che con la terapia del linguaggio, che non ci si può appoggiare sempre sugli altri, ma che bisogna trovare la forza ed coraggio di affrontare le proprie paure, guardare in faccia il “mostro” e dire: “Io ti posso sconfiggere, perché lo voglio fare!”. Bisogna prendersi le proprie responsabilità, essere coscienti che siamo stati noi, con il nostro agire o non agire, a lasciare che alcune cose accadessero.
Come dicevo in un altro contesto, è fin troppo facile dare la colpa a tutto ciò che è fuori di noi, quando noi non abbiamo fatto nulla per evitarla o, magari, l’abbiamo assecondata, se non addirittura, voluta.
Parole che sono troppo vere per poter essere ascoltate. Meglio lasciar perdere e cambiare discorso. Far finta di niente … Fino alla prossima crisi, fino al prossimo attacco, quando si tornerà a fare i soliti ricatti morali: “Io sto male e tu mi devi stare vicino!”.
Ma ci sarà il momento in cui, chi ti sta vicino si sarà stufato di correre al tua capezzale di bambino capriccioso e ti lascerà affrontare, da solo, la tua paura. Ed allora, o ne esci vivo o muori definitivamente.
Che discorsi tristi, dopo una tale mangiata pantagruelica.
Meglio andare a fare un pisolino ristoratore e digestivo. Tanto più che, sta sera sono stato invitato ad assistere al saggio di danza di Linda, che si esibirà in una coreografia di danza moderna, al teatro Maugeri di Acireale.
Mi passa a prendere Maria e Irene, verso le otto e ci dirigiamo verso Acireale, dove giriamo un bel pezzo prima di trovare un posteggio. Fiori in mano, ci troviamo davanti al Maugeri, restaurato, dopo decenni di incurie. Bisogna attendere fin quasi alle nove per prendere posto e che inizi lo spettacolo, ma, intanto, lo spettacolo era già lì fuori, dove un nugolo di parenti ed amici, variamente agghindati con l’abito delle migliori occasioni e le acconciature più improbabili, con corbeillies di fiori, manco ad una prima della Scala e che di danza sapevano, forse, quanto un gruppo vacanze al villaggio turistico.
“ … Sua figlia quanti balletti fa? … Beh, dopo tanti sacrifici, loro e nostri … Ha saputo della Maestra? … Ma quanto era tesa mia figlia … “.
Commenti in ogni dove, ed intanto ci raggiunge Venere e Lisetta.
Si abbassano le luci, tacciono le voci e nel buio … incomincia una lagna colossale, suonata dal vivo, da un compositore locale, che è stato definito “Il nuovo Morricone”. Sarà, ma con quella musica e le diapositive di tutte le allieve, nel dietro le quinte, non sembrava un buon inizio.
Il conduttore della serata, che ho saputo in seguito, essere il marito della direttrice della scuola di danza (insomma tutto in famiglia), aveva la stessa pronuncia di Malgioglio. E pensare che io ho sempre detto a Cicitto, che quella di Malgioglio è un’inflessione assolutamente improbabile e che nessuno in Sicilia parla così.
Prima di entrare, avevo chiesto a Maria, ormai esperta di saggi artistici, quanto potesse durare, anche per rendermi conto dell’orario in cui poter sentire Cicitto. “ … In genere, togliendo l’intervallo e i saluti e ringraziamenti finali, (pausa di riflessione e di conteggio) un’ora e mezzo …”.
Le ultime parole famose!
Tre ore e mezzo di balletti di dilettanti allo sbaraglio!
Certo le bambine erano carine, nei loro tutù e nelle loro gaffes ed imperfezioni, tra il tenero ed il clownesco; poi arrivano le ragazzine, ed anche qui non si può pretendere molto da delle allieve; a seguire, il corso avanzato, in un tripudio di “tutto di più”, tra culone svolazzanti e spillungone anoressiche che si atteggiavano a Savina Savignano.
Certo una scuola di danza, specie se a pagamento, deve accettare tutti e, a fine anno deve far esibire tutti, per la gioia dei genitori paganti le rette (“ … Che se la ragazza è contenta … Uno lo fa con piacere … Ma poi i risultati si vedono … Certo che se la deve un impresario … Magari anche qualcosa in televisione … O alla Fiera Campionaria … “), ma chi ha occhi per vedere, dovrebbe evitare di illudere le ragazze ed i genitori.
La prima parte del saggio passa abbastanza velocemente, belle le musiche e con un’ottima acustica, scarse e un po’ noiose le coreografie. E, nel finale, un pistolotto terrificante, tra lo pseudo religioso, tipo sermone, al politically correct di Comunione e Liberazione, durato un’eternità, con il “Morricone dei Poveri”, che continuava a suonare come un invasato ed il “Fratello Segreto di Malgioglio”, che declamava versi incoerenti sull’Africa ed i bambini abbandonati e la necessità di fare adozioni a distanza.
Eravamo al limite del collasso, tra risate d’isteria e la vera volontà a farla finita, tagliandoci le vene o tagliandoci i coglioni ormai completamente triturati.
Finalmente l’intervallo!!!
Sono le dieci e mezzo ed, ancora, sembra che la cosa sia molto lunga.
Telefono a Cicitto, raccontandogli, per quanto possibile, gli eventi salienti ed intanto, ecco che parla “Malgioglio 2”, per richiamare il pubblico, per l’inizio della seconda parte. E giù a ridere, come dei forsennati.
Restiamo intesi, che se lo spettacolo dovesse finire, così come dissero le parole famose di Maria, entro la mezzanotte, ci saremmo risentiti, altrimenti ci rinviavamo all’indomani.
Inizia il secondo tempo …
Solita solfa, anche se, alcuni quadri, tratti da musical, erano abbastanza ben congeniati e, togliendo le necessarie imperfezioni, ritardi, vaghezze, … a tratti, non era male.
Chicca delle chicche, per dare il tempo alle ragazze di cambiarsi, il solito “Morricone”, ha suonato un'altra delle sue composizioni da colonna sonora, ed a completare la scena, uno degli insegnanti ha improvvisato un balletto, davvero ispirato. E, per chi ne avesse il minimo dubbio, vi dico subito che era UNA PAZZISSIMA, UNA VERA DIVA, la Isadora Dancan della Riviera dei Ciclopi.
Applausi a scena aperta!
Ma non cela facevamo più!
Venere, mezza stravaccata sulla poltroncina, che sgranocchiava una barretta energetica, io con la bocca riarsa per la sete, Irene e Lisetta al limite del collasso e Maria che, serafica, si lamentava solo che non era come quello degli anni precedenti.
Arriva il gran finale, i saluti ed i ringraziamenti, la consegna dei fiori e baci e abbracci e lacrime e ….. Basta! Non era umanamente possibile: nonne che mostrano i primi segni di Alzheimer (erano sane all’inizio), madri con il trucco sbavato e cadente, padri con i riporti ormai al vento, vestiti sgualciti e fiori appassiti. Sembrava di essere tornati dalle grandi manovre!
Era, ormai, mezzanotte e un quarto.
Ci muoviamo, verso l’uscita degli artisti, con i pochi ultimi temerari che sono riusciti a sopravvivere. Rimasti, più per ritirare le figlie (nel senso di portarle a casa, anche se il loro segreto intendimento è di ritirare, veramente, le figliolette dalla scuola).
Quando, finalmente, ci troviamo in strada, ormai in macchina, con la fame che divora le viscere, ci si rende conto dell’ora: la una meno un quarto.
Dove trovare un posto ancora aperto?
Idea geniale di mia nipote Irene: andiamo a mangiare il kebbab. Lo fanno buono vicino alla Villa.
E via, verso la Villa Comunale. Ma Stavano chiudendo. Ed anche l’altro, poco distante, era già chiuso ed il proprietario stava innaffiando le piante, fuori dal negozio. Stessa sorte per quello all’inizio di Corso Umberto.
Si decide di andare verso Acicastello, magari qualcosa di aperto ancora c’è. Ed in effetti, troviamo un asporto di kebbab, che chiudeva alla una e quarantacinque: eravamo ancora in tempo.
Mangiamo in macchina, intanto che Maria guidava (no, lei non mangiava), accompagnando a casa, prima Venere e Lisetta, anche perché eravamo ad un passo da casa loro, e poi noi.
Per strada, Linda e Irene si erano abbioccate e Maria ed io parlavamo, ancora dei “problemi di comunicazione”. Ma, arrivati quasi a casa, Irene si rende conto di non avere con sé le chiavi di casa e, conoscendo il sonno pesante della sua famiglia era un po’ in apprensione. Non sarebbe certo rimasta sul portone, sarebbe potuta venire a casa da me o da Maria, ma si risolve il problema con tattici squilli e messaggi.
Finalmente, tutti a casa.
Qui, l’aria è decisamente più fresca che ad Acireale, sia perché la città è sempre più chiusa, sia perché siamo un po’ più in alto. Comunque, fumo l’ultima sigaretta e mi metto a letto, finendo di leggere le ultime pagine del libro di Busi: mi ha lasciato un po’ di amaro in bocca, ha messo in luce un uomo disilluso dalla vita e dai rapporti umani, in cui non trova più alcuna consolazione, né aspettativa, né, tantomeno, speranze; un uomo rassegnato a vivere gli anni che gli restano nella solitudine peggiore: quella senza alcuna volontà di reagire.
E ora di dormire!
Il lunedì mi aspetta la festa di compleanno di Fabiana e, chissà, quali sorprese …
Lunedì 28. Mi sveglio verso le otto, a causa della luce che entra dalla porta-finestra, che la sera prima ho dimenticato sollevata di un pezzo, Ma ho ancora sonno, cerco di girarmi, cerco di riaddormentarmi, ma mi scappa la pipì. Tanto vale che mi alzi e mi liberi la vescica, altrimenti non mi riaddormento più.
E così è. Mi risveglio per le dieci e mezza, solite abluzioni, solite pillole, solito Actimel e caffè e, poi, mi siedo al computer a leggere. Quand’ecco che suona il telefono: è Rosetta che mi chiede se sono in casa. Beh, se ti rispondo dal telefono fisso, forse sono in casa. “… No, perché devo copiare delle canzoni, per la festa di sta sera, sul CD, ma non sono capace. Me lo puoi fare tu se ti porto il PC e tutto il resto? ...”.
Che dire? “Vieni”.
Arriva dopo un pezzo, carica come un mulo, del suo portatile, con relativi CD e chiavetta per connettersi, visto che i brani da copiare erano in un sito web. Accendiamo tutto, mettiamo la chiavetta, … ma questa ha bisogno del PIN, che lei non ricorda e che ha a casa.
“ … No, ma tu per intanto masterizzami questo che mi ha prestato la mia amica, io intanto vado a Linera a prendere i salumi, poi vado a Giarre, lascio la bambina da mia suocera, prendo il PIN e torno … “.
Meglio non discutere. La lascio andare a tutti i suoi impegni inderogabili e tutti in contemporaneità. Io, intanto, mi sistemo le mie cose e poi si vedrà il da farsi.
Era già l’ora di pranzo, ed arriva mio cognato e mia sorella, e si decide per una bellissima misurazione di pressione collettiva. Tutti malatoni, tutti agitati, ma l’unico con la pressione alta risulto io.
Ci mettiamo a tavola, più contenti e soddisfatti, apprestandoci ad assaggiare l’insalata di riso e la parmigiana di melanzane, quand’ecco che suona il citofono: è Rosetta.
“ … Ma, non me lo puoi fare tu, da solo, questo lavoro, che io devo andare a dare da mangiare alla bambina e poi devo trovare dello spago per arrosti, che devo appendere i festoni, che devo … “.
“Senti Rosetta, io ti voglio bene e sono tuo padrino di cresima e tuo testimone di nozze, ma come mi puoi chiedere di mettere dei brani, alternati quelli per bambini a quelli per i grandi, se non so neanche quali brani vuoi? Tu, ora, ti siedi un attimo e mi dici cosa vuoi ed in che ordine e, poi, te ne poi andare ad impiccarti con lo spago per gli arrosti con tutti i festoni ed i CD!!!”.
Alla fine, ne veniamo ad una. Lei va a casa, a fare tutto quello che ancora le resta da fare: cioè dire rivoluzionare il mondo, prima della festa per sua figlia; ed io posso, finalmente assaggiare la mia deliziosa insalata di riso.
Dopo pranzo, riesco in brevissimo a fare i CD che aveva bisogno, le porterò il PC e tutto il cucuzzaro, questa sera, quando andrò a casa sua, con l’incarico di portare anche la torta, che ha fatto Sebastiano.
E, per qualche ora, non voglio sentire e vedere nessuno!
Ho iniziato a leggere uno dei libri della Litizzetto, che adoro sia come intrattenitrice televisiva sia come scrittrice. Vero è che i suoi libri altro non sono che la trasposizione dei suoi monologhi, ma leggendoli, io me la rivedo, seduta sulla scrivania di Fazio, sentendone la voce, con la sua inflessione tipicamente piemontese.
Verso le sette, mi sono preparato, ho chiesto la macchina a mio padre (ogni volta mi sento come un diciottenne, che deve chiedere le chiavi di casa). Purtroppo, io sono già un guidatore svogliato, in più non conosco la macchina e, ancora di più, è la macchina di mio padre, che se anche le facessi un minuscolo graffio, sarebbe una vera tragedia.
Vado a prendere Irene e la torta, con relative decorazioni, ma mi rendo conto d’aver dimenticato a casa il regalo per Fabiana. Ripassiamo da casa e già mio padre va in allarme: “Cosa è successo?”.
Arriviamo a Giarre per le otto ed, a casa di Rosetta è già il caos. Ma non per gli ospiti, che ancora mancano, bensì per la bambina già sull’orlo dell’isteria.
Erano presenti le due suocere con relativi consorti, una nostra cugina con figlio di tre anni, e la madrina di “cuppuluni” (E’ antica tradizione in Sicilia che, oltre alla madrina ufficiale, ci sia una madrina affettiva, che, al momento del battesimo, lavi il “cuppuluni”, cioè dire, la cuffietta. Oggi, che non esiste più l’uso delle cuffiette per i neonati, tale madrina, lava il fazzolettino ricamato con cui viene asciugato il capino del bimbo, dopo essere stato asperso dal parroco con l’acqua santa. Ma io sono convinto, che questa pratica serva soltanto per riuscire ad avere solo un grosso regalo in più.)
Andiamo in terrazza, dove è stato posizionato un artistico gazebo in ferro battuto, buono per il giardino di una villa, con tanto di teli e drappi; ci sono festoni e palloncini, in un tripudio di Hello Chitty; tavoli e sedie ovunque ed uno stereo, che suona canzoncine per bambini, con tutto il repertorio. Solo che, mi rendo conto che alla bambina, di tutto ciò, non gli e ne importasse nulla, se non scaraventare a terra bicchierini e tovagliolini colorati, rigorosamente nei toni del rosa, il tutto in un attacco di capricci a go-go.
Quanto avrei voluto Tata Lucia, ma forse sarebbe stato meglio che ci fossero state tutte le tate di tutte le edizioni di “Operazione Tata”, anche perché, poco dopo, si è aggiunta Eleonora, completando così il trio infernale alla Dario Argento.
Altri ospiti, c’erano, ovviamente, mio cugino Salvo e la moglie, la coppia di testimoni di nozze di Rosetta, con i quali sono molto amici, un’altra coppia di cui lui è collega di lavoro di Santo (il marito di Rosetta), e, in ultimo, è arrivato il fratello di Santo, che ha preparato alcune delle cose che abbiamo mangiato.
Il menù era composto da quantità spropositate di salatini di ogni genere, a seguire, panini al latte con farciture varie, pizzette, arancini di riso e “cartocciate”, bibite varie, in ultimo la torta gelato e la macedonia.
Per tutta la sera, mi sono diviso tra mio cugino Salvo e Saro, il testimone di nozze, con mia zia Tina, che mi tampinava raccontandomi dei suoi acciacchi.
La povera Irene è stata reclutata come guardiana delle piccole belve e, comprensibilmente, non ne poteva più.
Il clou è stato il taglio della torta, con relative foto, che pareva di essere ad un matrimonio, in cui tutti gli invitati erano chiamati a fare la foto con la festeggiata, che, bellamente, infilava le mani nella panna, infischiandosene di tutti, con l’unico pensiero per i regali.
Alle undici, chiama Cicitto e, non so per quale arcano motivo, lui non riusciva a sentire nulla, mentre io sentivo benissimo, avendo perfettamente campo. Più e più tentativi con Cicitto spazientito e depresso, che inveiva contro tutta la tecnologia del mondo. Finalmente, in un angolo freddo e ventoso del terrazzo, si riesce a parlare, anche se, ovviamente, non in maniera esplicita e tranquilla, così come è nostro solito.
Lui si sente molto stanco, e ne ha ben donde, ed anch’io sono stanco di stare lontano da lui: mi manca terribilmente.
Intanto che parlo con Cicitto, mi arriva un messaggio da parte di Irene, che mi chiede se non fosse ora di accomiatarci (non erano queste le parole). In effetti abbiamo già preso fin troppo freddo, abbiamo sentito fin troppi strepiti di bambini viziati ed era anche quasi mezzanotte.
Saluti, ringraziamenti, riceviamo la bomboniera (anche) e ci avviamo verso casa.
E’ stata una serata sbagliata. Una festa per adulti mal assortiti, camuffata da festa per bambini, con tutti i colori e gli addobbi di un’infanzia mai finita. Un mito infantile di riunione di “amichetti” ormai cresciuti, che poco hanno in comune e che nulla hanno da raccontarsi. Tutto molto triste e vagamente decadente, di una fanciullezza che non si vuol lasciare andar via.
Mi sento un po’ stanco. Stanco di vedere coppie, che non sanno gestire la propria rabbia, neanche quando hanno ospiti a casa, che non sanno gestire i malumori dei propri figli, imponendoti di assistere alle loro discussioni, con enorme imbarazzo. Mi chiedo perché si riuniscano tante persone, se poi non segui i tuoi ospiti. A chi serve questa vetrina, piena di tante apparenze, se poi fai vedere che dietro c’è solo un palloncino sgonfio, che penzola tragico.
Sono davvero stanco!
Martedì 29, San Pietro e Paolo. Ed il primo pensiero è per Cicitto: gli mando un messaggio sul cell.
A metà mattinata, passa una signora per una “consulenza”. Dopo pranzo, un’altra. Ed il resto del pomeriggio tra sonnecchiamenti e lettura.
Ci prepariamo, per la serata di festeggiamento del cinquantesimo anniversario dei miei genitori.
Già, mio padre inizia ad entrare in un fermento, quasi isterico sulla scelta del ristorante, perché, a suo dire, non c’è posto per posteggiare, poi, con un giro di telefonate è tutto risolto: mia sorella ed i ragazzi vanno con la loro auto, partendo un po’ prima, per sistemare i fiori e portare la torta; i miei genitori andranno in macchina con i consuoceri; Maria, con Linda e Pietro, daranno un passaggio a me; dopo ci raggiungeranno Venere e Pesce.
Il ristorante è a Giarre, in cui già l’anno scorso eravamo stati con mia sorella: davvero carino, con una splendida terrazza fiorita, ricca di oggetti antichi, raccolti in anni di giri per rigattieri, inoltre, magnifiche piastrelle di maiolica di De Simone Padre, e foto antiche delle storiche corse della Targa Florio, che si correvano tra i tornanti della Timpa di Acireale.
Presi i posti, scattate diverse foto, ordinato. Ma la partita del mondiale incombeva da un maxi schermo ed il signor Turi, con Pesce, erano li, impietriti, tanto da dover portare loro le bruschette, davanti alla TV.
Il solito bailamme, quando si è in tanti, del “chi ha ordinato cosa”. Ma io mi chiedo: “Possibile che non ti ricordi cosa hai scelto dieci minuti fa, mentre ti ricordi benissimo cosa ha ordinato il tuo vicino di posto?” .
Ma tutti, alla fine, gustano la propria pizza (tranne Irene e Pesce, che hanno preso della carne), con una magnifica birra, che il proprietario del ristorante, serve in boccali che sono stati tenuti nel congelatore e che, al contatto con la birra, la cristallizza in deliziosi cristalli di birra ghiacciata che salgono in superficie con la schiuma.
Io, ovviamente, non potevo che chiedere la pizza “alla Norma”, rigorosamente, con melanzane fritte e ricotta salata: ottima!
Arrivati al momento dei regali, oltre il cellulare, comprato da noi figli, è arrivata anche un’enorme scatola, e li ho capito subito: la macchina per il caffè, che era stata lanciata come idea iniziale, è ricacciata fuori, come regalo di tutto il resto del gruppo (dovrà trovare il posto dove metterla … ).
Altre foto, altro giro.
Ecco la torta. Una strepitosa creazione di mio cognato, fantastica alla vista, quanto al palato, ricchissima di oro, sotto forma di rose dorate, anelli e cifre. Ovviamente, altro giro di foto di rito, con tutti. Ed in questo frangente, chiama Cicitto. Mancava proprio lui, a buon diritto avrebbe dovuto esserci, il mio compagno da sette anni, che condivide con me tutto, mancava in questo momento. Mancava a me!!! Ovvio, che gli altri, non conoscendolo neanche, non ne sentissero la mancanza, ma io sì!
Anche lui sta accusando il colpo della nostra lontananza, ma, purtroppo, la Sicilia per lui è off-limit , chissà ancora per quanto.
Saluti, baci, abbracci, e ci avviamo verso casa.
Mi sento stanco, fumo l’ultima sigaretta, leggo svogliatamente qualche pagina della Litizzetto e spengo la luce. Un sonno senza sogni, o meglio, nessun sogno che io ricordi.
La mattina del mercoledì vola velocemente: mi alzo verso le nove e mezzo, mi preparo e vado, con mio padre, in paese, per fare delle fotocopie; poi, passo da mia sorella, per chiedere i soliti dolcini alla mandorla, che tanto piacciono ai miei amici lombardi; tornato a casa, passa Rosetta con la bambina, sempre in continuo movimento incontrollabile ed incontrollato; per arrivare al pranzo.
A tavola, eravamo pochi, perché mancavano i miei nipoti (chi al mare, chi a ripetizione). Mia madre si è sbizzarrita in piatti a base di funghi (i porcini, che loro hanno raccolto sull’Etna quest’inverno): pasta con asparagi selvatici e porcini, petti di pollo al forno con patate e porcini, frittata con porcini. Mancava solo un’insalata con porcini, il melone con porcini e il caffè con porcini, ed avremmo finito in bellezza il pasto, con i porcini che ci uscivano da tutte le parti.
Pomeriggio, tra inedia e tedio e … non so neanche io cosa. Non avevo voglia di niente, neanche di dormire il mio solito pisolo pomeridiano. Ho finito col leggere il racconto che mi ha scritto Lucia, finendolo. Certo, è molto da limare e depurare, ma per una collana tipo Armony, potrebbe andar bene.
Mi sono, poi attardato in balcone a chiacchierare con mia madre. Ho cincischiato con il telefonino nuovo, che gli abbiamo regalato, impostando le funzioni che a loro potevano tornare utili. Come dico sempre: “Mia madre potrebbe litigare anche con il tostapane”, figuratevi con un cellulare!
Mio padre ha apparecchiato per la cena, in balcone e, sul tardi, arrivano mia sorella, Sebastiano, Irene e Salvo, mancava Federica, che era ad una riunione di fine anno, con le compagne di classe.
Già si sentiva aria di tempesta, da quando hanno chiuso gli sportelli dalla macchina. Salvo rampognava, perché voleva uscire un i suoi soliti amici, i suoi genitori che non vogliono che stia tutte le sere in giro, non si sa bene dove e con chi. Lui che rivendica il “DIRITTO” ad uscire, perché lavora alcune ore del mattino al bar, studia ai corsi di recupero, sta facendo il corso di sub e si sta preparando per la patente.
Attività validissime, se non fosse che, per dare una mano al bar viene pagato (seppur poco), i corsi di recupero li deve fare, obbligato dalla scuola, perché è stato rimandato in quattro materie, il corso di sub è una specie di regalo e non un’imposizione e la patente è una cosa utile.
Ma non se n’è potuto venire a una. In balcone tirava un’aria fresca, oserei dire gelida, tanto che ho indossato jeans lunghi e camicia a pesante, la cena è stata un tormento e lui si è rifiutato di mangiare. Ma non è uscito.
Mio cognato aveva portato il suo PC e, dopo cena, abbiamo visto le foto degli ultimi mesi ed io ne ho scaricate un po’ sulla mia chiavetta, anche per farle vedere a Cicitto, che ha chiamato per le undici e non vede l’ora che ritorni a casa.
Ormai manca poco. Venerdì 2, si riprenderà l’aereo verso la Brianza.
Ero stranamente stanco e già, verso le undici e quaranta ero a letto, ma non riuscivo ad addormentarmi. Mi sono rigirato per parecchio tempo, insofferente alle coperte, al caldo, alle zanzare. Sembrava che tutto fosse storto. Ma il problema è che, ormai, questo periodo di ferie incomincia a starmi stretto, ho bisogno di tornare alla mia routine.
Finalmente calo nel sonno.
Il giovedì, mi sveglio abbastanza presto, verso le otto ed un quarto, anche per il rumore che fanno gli addetti alla nettezza urbana ed il vociare dei venditori ambulanti. Mi alzo, con le mie articolazioni irrigidite, vado in bagno, prendo le mie pillole e torno a letto, cercando di riprendere sonno. Ma niente. Tanto vale alzarsi, definitivamente. Mi rado, faccio la doccia, faccio un giro sul computer, in attesa che arrivino Anna e Sebastiano, per andare a Catania, per il controllo settimanale della lesione da radiazioni, con cui sta ancora combattendo.
Ci avviamo verso Catania, per le undici passate. Il solito traffico cittadino, a cui, penso che non riuscirei mai ad abituarmi. Arriviamo in via Plebiscito al vecchio Umberto I°, un ospedale storico, che pur essendo stato riarrangiato (perché dire “ristrutturato” è dire troppo), evidenzia i segni del tempo: una struttura a padiglioni, poco funzionali.
Arrivati all’ambulatorio di dermatologia, attendiamo, vedendo passare ogni sorta di medico, paramedico e affine. Un paio di dottoresse sembrava che fossero alla serata inaugurale de festival del cinema, tanto erano tirate a spolvero. Alcuni dottori sembrava che andassero a zonzo, per riempire il tempo, prima dell’ora di pranzo. E tutti avevano l’aria svogliata di chi si chiede: “Perché proprio a me? … Me ne stavo così bene a casa mia! ... Quasi quasi ci torno …”.
Per fortuna, il medico che ha in cura Sebastiano, mi ha dato una buona impressione, nonostante il contesto in cui opera.
Gli ha fatto un curetage chirurgico, asportando, per quanto possibile, la fibrina che si è formata nella lesione. Lo rivaluterà tra due settimane.
Torniamo verso casa, e dovendo ripassare per il centro di Catania, si evidenzia “L’Antica Arte dello Strombazzamento”, cioè, quella maestria ad usare, in modo assolutamente inconsulto, il clacson.
Ovunque ti girassi suonavano, per qualsiasi motivo e senza nemmeno averne uno: così per non perdere l’allenamento. Devi girare a destra? Strombazzi! Devi cambiare corsia? Strombazzi! Devi salutare qualcuno, anche se non sei sicuro che sia la persona che conosci? Strombazzi!
Insomma si strombazza sempre, in un concerto, pari a quello che si sente negli stadi sudafricani.
Ma pensate più a trombare a casa e non a strombazzare per strada!!!
Arrivati a casa, tutti avevano già pranzato. Quindi, ci siamo sistemati sul balcone a gustare una deliziosa lasagna.
Ma la tranquillità è una vaga speranza. Salvo stava in soggiorno, in semi oscurità, dicendo di studiare Diritto; Federica era seduta in balcone, mentre Irene le agghindava i capelli a mo’ di boccoli … Quando ecco la fatidica domanda: “Mamma, mi accompagni al cinema con le mie compagne?”.
E da qui, si sono aperte le solite cataratte della guerra verbale, dei ricatti psicologici, delle minacce neanche minimamente velate. Orribile!
Non ne posso proprio più! Non vedo l’ora di tornare alla pace della mia vita quotidiana, dove non devo essere armato e corazzato verso tutti e tutto, dove non devo scontrarmi ad ogni piè sospinto, dove non devo scendere a mille compromessi, proprio mentre sono a tavola.
Mi chiedo se non fosse stato meglio se, Adamo ed Eva, anziché una foglia di fico, non avessero usato una pala di fico d’india, cosi da risparmiarci da progenie tanto difficili da gestire.
Alla fine, non so con quale tregua sia finita la battaglia, perché me ne sono andato, veramente irritato.
Mia madre ha deciso che, come ultima sera di permanenza in Sicilia, avrei dovuto mangiare il “Pane Condito”: pane fatto in casa e, appena sfornato, condito con pomodorini, olive, prezzemolo, olio, sale e pepe e poi, ad libidum, si può aggiungere formaggio, prosciutto e quant’altro t’ispira il cuore e lo stomaco. Ma io preferisco la versione classica, calda e fragrante e senza troppe aggiunte.
Nel pomeriggio, ho riposato un pochino. Ero stranamente stanco. Forse, non è poi così strano, viste le continue tensioni che tocca subire, dagli scontri generazionali.
Mia madre con la signora Enna (ormai eletta Zia Enna, ad onorem), impastano il pane e lo cuociono nel forno a legna, come si faceva una volta.
E’ stato bellissimo, assistere all’infornata, le ciambelle lievitate, che vengono prese con la delicatezza con cui si solleva un bambino, ed adagiate sulla pala da forno, per sistemarle sotto la cupola di mattoni arroventati dal fuoco. Prima di chiudere la bocca del forno, si versa un po’ di farina su un po’ di brace rimasta all’ingresso del forno e si recita una preghiera: “Santa Rusalia, janca e russa comu a Vossia”, invocando l’aiuto di Santa Rosalia, affinchè il pane diventi ben cotto e dorato (bianco e rosso come Voi).E’ questo un rito che si rifà a ricordi ancestrali, in cui s’invocava La Grande Madre, o Demetra, o le varie divinità della Fertilità, per avere abbondanza e prosperità.
Intanto si leva un profumo di pane appena cotto, che inebria.
A cottura ultimata, il pane viene condito e, possibilmente, mangiato caldo.
Per la serata, abbiamo sistemato in balcone, ci sarebbero stati tutti i soliti del pranzo della domenica, ma poi, per un contrattempo mancavano i suoceri di Anna.
Inutile dire, che ci sia stata un’altra discussione con Salvo, sull’uscita serale e sui suoi amici, ma come sempre, tutto si è risolto in una bolla di sapone, scoppiata con un urlo.
Passato questo momento, ricomincia Federica, che un po’ scherzando un po’ provocando, dice di voler provare a fumare. “Bene” gli dico, “Vai a prendere il pacchetto e fumane almeno venti”. Lei, con fare di sfida, va e ne prende una, ma non l’accende ed io la sprono a farlo: deve avere il coraggio delle proprie azioni.
“Le scelte della vita non sono come provare un vestito, che se non ti piace lo cambi. Una volta che hai provato è per sempre! Non puoi più tornare indietro, l’esperienza è stata fatta e niente ti restituirà l’integrità che avevi prima. Non si fanno mai scelte per sfida, per provare d’avere coraggio, ma perché davvero si vogliono fare e sapendo a cosa si va in contro. Ed ora se vuoi fare un tiro, sappi che poi non potrai dire ho provato, ma ho fumato.” Testuali parole.
La serata è finita con i regali: mia sorella mi ha regalato un accappatoio, più un set di lenzuola con asciugamani (non so come farò a mettere tutto in valigia, visto che ci sono i dolci, i regali per La Mamma ed altro ancora), Rosetta è passata a salutarmi, con Santo e Fabiana e mi hanno regalato un telo da mare ed una maglietta.
Andando a letto, mi sento un po’ stanco. L’indomani sarà una giornata pesante.
Venerdì 2 luglio. Mi sveglio per le nove, incomincio a preparare la valigia, anche per capire cosa riesco a farci entrare. Come previsto alcune cose non possono fisicamente entrare. Più avanti le recupererò.
Faccio la doccia e vado al Bar, per mangiare la prima e unica granita della stagione: panna sul fondo della coppa, granita alla fragola e ancora panna sopra, accompagnata con una fragrante brioche ancora calda. Una vera goduria!
Quelle che in Sicilia si chiamano granite, non hanno nulla a che vedere con quelle delle altre regioni, dove s’intende, invece, la granatina, Qui ricordo più un sorbetto, qualcosa di cremoso, che non è il gelato: è granita!
Ho incontrato anche Nino, che non è cambiato di una virgola, se non un po’ di pancetta e qualche ruga in più.
Ho salutato la signora Graziella e il signor Turi, Maria e Orazio e sono tornato a casa a sistemare le ultime cose. Siamo davvero agli sgoccioli.
Mia madre avrebbe voluto cucina pasta al pesto di basilico fresco, ma dopo una granita con panna e brioche, non credo che riuscirei a mandar giù molto. Forse un toast.
Mia madre ha messo in tavola, come se fosse un giorno qualunque, cioè dire un pranzo in piena regola, con pasta al pesto, cotolette, insalata e toast.
Come al solito, la discussione dell’ora di mangiare, con Irene che chiede di uscire ed il padre che si lamenta che le figlie non hanno messo in ordine, lei che recrimina che i fratelli sono usciti anche se non hanno fatto nulla in casa … Tutto estremamente noioso! Ma per fortuna è l’ultima!
Alla fine, ho deciso di portare un bagaglio a mano, nonostante la sacca del computer, e così sono riuscito a portar via tutto.
Ci abbracciamo sul cancello di casa: è sempre un momento difficile, specie per mia madre, sul punto di piangere. Ci rivedremo solo tra un anno … ed è lunga. Ma non posso fare diversamente, spostarmi, con pochi giorni di ferie, è sempre problematico.
Comunque, siamo in macchina, mia sorella alla guida, alla volta dell’aeroporto. Intanto che loro posteggiavano, ho fatto il check-in, poi, visto che ancora ci sarebbe voluto parecchio, prima dell’imbarco, ho chiesto loro di avviarsi verso casa: era inutile perdere tempo, aspettando, tanto più che al bar c’era tanto ancora da lavorare.
Ci salutiamo e passo il check-point, questa volta senza problemi. Ultimo saluto dalle scale che portano all’imbarco. Ora inizia l’attesa per il vero ritorno.
Telefono a Cicitto, per avvertirlo, che sono già in aeroporto, con l’idea di risentirci al momento dell’imbarco effettivo.
Intanto, mi guardo intorno, tanta varia umanità: PAZZE in bermuda con enormi fiori di peonia; panzoni, che portano in giro il loro ventre, come fosse un bagaglio a mano; vecchie carampane, con la tinta sbiadita dal sole e dall’acqua salata; i soliti manager, che non fanno altro che telefonare, parlando ad alta voce, programmando acquisti e vendite e controlli della commissione controlli, che tanto conoscono un amico che li avverte per tempo; qualche straniero; qualche siciliano che si considera straniero, considerati gli anni che vive in Germania o chissà dove; ragazzine, che sgami subito, che l’hanno fatto giusto in vacanza, perché si sentono “tanto donna”, eppure un po’ in colpa. Insomma tutto il mondo in una sala d’attesa.
Ed in quest’attesa, ci sono anch’io, con il desiderio di tornare a casa per riabbracciare il Mio Cicitto, con scarsa volontà a tornare al lavoro e con il rammarico di non poter stare per più tempo con i miei genitori. Certo, Cicitto ed io siamo famiglia, ma, a volte, mancano le coccole di un piatto cucinato apposta per te.
L’attesa del volo diventa lunga, già oltre mezz’ora di ritardo per l’imbarco ed altra mezz’ora prima del decollo. Volo tranquillo, in cui si vede la differenza tra la nostra compagnia e le altre: le nostre hostes avevano i segni dell’età sul viso e sembravano delle casalinghe prestate al volo, con i bambini lasciati da poco nell’asili del hangar.
Erano già le sei, e ancora volavamo tra le nuvole della Lombardia. Cavoli, pensavo, non abbiamo recuperato niente durante il volo.
Ma non era così! Si sente la voce del comandante che ci avverte, che per motivi tecnici, sulla pista di Linate, non si può atterrare e che ci DIROTTANO su Malpensa.
Mi si stringe lo stomaco. Penso a Cicitto che avrà già raggiunto Linate e non poterlo avvertire.
Comunque non si può far altro.
Una volta atterrati, ci lasciano sull’aereo, perché non hanno i pullman sufficienti a portarci al terminal.
Quando entriamo in aeroporto, alle sette, inizia il balletto per i bagagli: innanzitutto, capire dove arriveranno e poi, quando. Continuo a telefonare a Cicitto ed a mia madre per rassicurarli e, man mano, il tempo passa davanti a quel rullo trasportatore, su cui arrivavano a singhiozzo ed a caso, le valige di tutti i voli che erano stati dirottati. Quando finalmente, dopo due ore, arriva la mia valigia, mi dirigo, con un folto gruppo che era sul mio stesso aereo, verso l’uscita sette, dove avrebbe dovuto esserci un bus, che ci avrebbe accompagnato a Linate. Ma oltre il muro di caldo e di afa, non c’era un bel fico secco.
Alla fine, arriva un’assistente dell’Alitalia, che in qualche modo ci aveva seguito in queste due ore di tormento, e recluta un pullman, che ci imbarca e si parte. Sono ormai le dieci.
Non siamo ancora entrati in autostrada, che chiamano l’autista dicendo che ci sono altri passeggeri da trasportare. Allora, si ritorna in aeroporto, si attende all’uscita due, per poi sapere che hanno deciso di inviare un altro bus.
Sta volta si parte davvero. Un viaggio di un ora, con l’incubo, annunciato, di un incidente lungo il percorso.
Per fortuna, togliendo un po’ di incolonnamento in prossimità di Cormano, per il resto, è andata bene, raggiungendo Linate alle undici.
Cicitto era li, in attesa, che si sbracciava per farsi vedere, in un piazzale gremito di taxi, autobus, macchine strombazzanti, in un calco afoso e pieno di smog, … ma mi sembrava una scena al rallentatore, dove i rumori si attenuano e tutto diventa irreale, fin chè non ci abbracciamo. E tutto intorno riesplode.
Stanchi, stressati, sudati, andiamo a pagare il posteggio e cerchiamo di uscire dalla zona aeroporto. Che casino, per essere così tardi. Macchine per ogni dove, che sembrava di essere a Napoli nell’ora di punta, alcuni stavano litigando furiosamente arrivando quasi alle mani, forse per un incidente …
Via, via, via … Bisogna andare via!
Entriamo, finalmente in tangenziale e, nonostante l’ora, c’era parecchio traffico, ma si scorreva.
Arrivati a Cernusco, ci fermiamo a prendere un Kebbab da asporto ed andiamo a casa.
Un caldo micidiale, sicuramente molto più che in Sicilia. Disfo la valigia, intanto che Cicitto fa una doccia, poi tocca a me rinfrescarmi e ci sediamo a mangiare il nostro kebbab.
Ora, sembrava che la fatica di quest’orribile pomeriggio fosse finita, con l’acqua della doccia.
Finalmente a casa!!!
Ma non ci si può attardare. Sabato mi aspetta il turno di mattina, sperando di trovare un reparto tranquillo.
Ci mettiamo a letto, ma non è facile fare un sonno tranquillo. Continuavo a svegliarmi, addirittura, devo aver urlato nel sonno, m’era parso che qualcuno stesse entrando dalla finestra semiaperta, ma forse era solo un po’ di corrente d’aria.
Insomma l’incubo non era ancora finito.
Mi sveglio definitivamente alle sei, mi preparo e vado al lavoro, dopo aver baciato Cicitto, ancora immerso nel sonno. Esco di casa … Ora davvero, queste vacanze di merda sono finite!!!
Note a margine:
-La seconda notte, che dormivo nel mio lettino da educanda, per poco non mi precipitavo dal letto, non avendo calibrato ancora bene le misure.
-Quando ho passato la giornata con Lucia, tenendo la macchina fotografica in tasca, inavvertitamente, questa si è accesa, portando in fuori l’obbiettivo, creandomi una ”erezione digitale”, che si notava attraverso i pantaloni. Poco male: dava l’impressione di una buona salute sessuale, il che non è molto lontano dalla realtà.
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