giovedì, settembre 23, 2010
Il Gatto...
Rientro a casa stanco, ancora una volta …
Stanco per una giornata di lavoro, stanco per alcuni giorni in cui ci sono state delle tensioni, piccoli problemi di vita quotidiana …
Accendo la televisione, tra le tante cose c’è un programma in cui una coppia in crisi si mette in discussione con l’aiuto di un sessuologo. Ma la cosa che mi ha colpito di più è stato l’acquario, che questa coppia aveva in casa. Lui se ne prendeva cura e lei era estremamente succube.
Una domanda mi è sorta spontanea: “Lui viveva il rapporto come un acquario?”
Un rapporto di controllo. Tutto trasparente, ma distante, come sotto un vetro: piccoli animaletti da gestire, da nutrire, di cui gioire, ma un rapporto a distanza, di superiorità, chiuso in una bolla, da cui prendere piacere, ma a cui non chiedere altro che essere belli, adattarsi all’ambiente limitato costruito ad hoc, e silenziosi. I pesci non parlano!
Non sono un amante di animali da appartamento, un po’ per pigrizia, un po’ perché non ho effettivamente il tempo per seguirli, ma non credo proprio che terrei un acquario.
Ho bisogno di interagire, di sentire ed essere sentito, di poter accarezzare e magari di sentire una piccola lingua rasposa che mi lecchi le dita, un gatto, magari, che sia libero di vivere ed essere ciò che è: essere vivente libero ed indipendente , che decide di darti amore solo se te lo meriti, che ha un rapporto con te perché lo vuole, altrimenti va altrove, libero e liberando te stesso.
Mi rendo conto che se dovessi riconoscermi in un animale, l’unico sarebbe il gatto.
Io un gatto randagio, sempre in cerca di una tana da chiamare casa, alla ricerca di un equilibrio sul cornicione, sempre pronto a vivere un’altra delle mie sette vite, senza alcun guinzaglio, ma pronto ad acciambellarmi sulle ginocchia di chi mi da una carezza senza la volontà di legarmi ad una catena.
Il gatto che è in me mi porta ad essere insofferente di soffiare, arruffando il pelo, di tirare fuori le unghie e di guardare il mondo sempre di sguincio, vivendo di notte, facendo le fusa, strusciandomi sulle gambe di chi mi sta simpatico e segnando il territorio, pisciando sulle porte dove voglio tornare.
Forse un animale dispettoso ma onesto, sincero, capace di vegliare quando gli altri dormono per assicurare la loro serenità, capace di miagolare per tutta la notte alla luna per il simile di cui si è innamorati e di leccarsi le ferite dopo gli scontri furiosi di passione.
Sì! Sarei davvero un bel gatto, un magnifico gatto, che, forse, anche gli egiziani avrebbero adorato, coccolato in templi sulle rive fresche del Nilo, tra palme da dattero e ibis bianchissimi, che si crogiola dei profumi degli incensi e si nutre del latte delle bianche mucche dalle corna a forma di luna crescente.
Magari sarei solo il gatto che si arrampica sul davanzale e lascia il segno del muso sul vetro, magari sarei il gatto del film di Audrey Hepburn in “Colazione da Tiffany”, senza un nome vero, ma con il vero amore.
Sì! Sarei davvero un bel gatto! E non chiedo altro che di essere accarezzato, stando sulle ginocchia del mio vero amore …
Ed ora vado a fare le fusa sotto le coperte. Vostro, Salvo.
lunedì, luglio 05, 2010
Viaggio a ritroso …
Viaggio a ritroso …
Vi avverto subito che la cosa è lunga.
Mettetevi comodi, prendetevi il tempo che vi occorre e apprestatevi a leggere il resoconto di questa vacanza. Altrimenti organizzatevi a leggerla a puntate.
Inizio …
Quando si dice una vacanza di merda …
Sabato mattina, sveglia alle sette e mezzo. Un po’ assonnato, preparo le ultime cose, faccio la doccia e poi Cicitto mi accompagna in stazione … e già a Cernusco incomincio a sentire premere nell’intestino, ma come fare … Te la tieni!
Giunto a Milano, la solita trafila: dalla Garibaldi, in Metro, fino alla Centrale, quindi attesa che arrivi il bus navetta per Linate … ed anche qui l’intestino che preme. Cerchi di camminare a piccoli passi, la sigaretta che stimola ancora di più la peristalsi. Insomma, una tortura!
Arrivo in aeroporto con notevole anticipo per il check-in: devo aspettare, senza poter lasciare la valigia da nessuna parte, l’intestino che preme, ma andare in bagno vorrebbe dire entrare con valigia, sacca per il computer e contenitore refrigerato per i farmaci. Impossibile!
Cerco un posticino tranquillo per sedermi in punta di sedia a leggere il mio “Montalbano”, ma era una tortura: continuavo a muovermi poggiando ora su un gluteo ora sull’altro per non gravare sullo sfintere ormai sfinito. Per fortuna, avevo scelto una lettura divertente che mi permetteva di distrarre l’attenzione dal problema impellente.
Alle dodici e mezzo mi muovo alla volta del check-in e qui mi fanno delle storie per i farmaci ed il loro contenitore con le mattonelle refrigeranti … per fortuna il santo protettore dei fancazzisti mi ha assistito e piuttosto che recuperare la valigia per farmeli sistemare dentro, si mettono d’accordo tra loro e tutto diventa possibile. C’è da dire che io mi sarei battuto fino allo stremo del mio povero sfintere compresso dall’attacco delle feci impellenti per non caricare i miei farmaci nella stiva con i bagagli: in caso di smarrimento del bagaglio avrei potuto fare a meno delle mutande ma non della mia chemioterapia.
Finalmente Libero!!!
Corriamo in bagno! Anche perché, stranamente era come se il mio intestino avesse avvertito il “via libera” e cominciasse a scalpitare come non mai. Trovato il bagno, poggiate tutte le borse, grave decisione: come sedersi su quel water sconosciuto?! Ma la premura dei miei visceri ha deciso per me e mi siedo e mi libero…
“Sempre sia benedetto l’inventore del gabinetto” AMEN!!!
Ora leggero e sereno mi approssimo al cancello d’imbarco.
Per passare il check-point devo togliere l’orologio, l’anello, la cintura, mettere il cellulare nella borsa, togliere dalla borsa il computer, togliere il giubbotto, tenere in mano il foglio d’imbarco … insomma un lavoro da vero direttore d’eventi, a metà strada tra l’equilibrista e l’archivista.
Ma non basta! Passato il metaldetector comincia a suonare. “Torni in dietro … Si tolga le scarpe … se vuole ci sono dei calzari monouso … ” . Ma chi se ne frega dei calzari! Fatemi passare e finiamola così!
Tante facce, tante famiglie con bambini e, anche ad uno sguardo superficiale, ti accorgi di chi siamo i siciliani e chi no. Non è nemmeno necessario sentirne l’inflessione: basta solo la faccia. I lineamenti tipici dei miei conterranei, l’attaccatura dei capelli, la stessa postura.
Per non parlare della concentrazione di “PAZZE” che ho cominciato a trovare già sul treno del mattino: sembrava una diaspora del 12 Giugno, un avanzo del Pride, disperso tra Brianza e Milanese, alla ricerca di qualche orgoglio sopito.
L’aereo parte con oltre mezz’ora di ritardo.
Io siedo vicino ad un finestrino di coda, accanto a me una coppia leccatissima, che tira fuori da una fusta del free-shop una catasta di giornali di gossip lei di economia lui … Ma che me ne frega: io ho il mio “Montalbano”, che continua a farmi sbellicare dal ridere.
Per leggere, ormai, sono costretto a togliere gli occhiali ed è tutto un su e giù di lenti per non dover tenere il libro ad una distanza siderale, impossibile nell’angusto spazio del sedile di aereo.
Il volo, nonostante fosse Alitalia, si serviva di aeromobili Air-One, le hostes erano piuttosto insignificanti, gentili per contratto e con quel sorriso su faccia rifatta, che non capivi se fosse intenzionale o opera del chirurgo, e dire che erano anche giovani: che necessità avevano di ricostruirsi la faccia?
Volo sufficientemente tranquillo, con il solito piccolo rinfresco a base di salatini e piccolo bicchiere con bibita e, cosa encomiabile, assieme al solito tovagliolino di carta ed alla solita salviettina rinfrescante, hanno consegnato una bustina di gel disinfettante per le mani.
Ormai in dirittura d’arrivo, con l’Etna alla nostra sinistra, magnifica con il suo pennacchio di fumo e le striature bianche che non sai mai se si possa trattare di neve i cenere, inizia la discesa …
Un momento difficile!
Non capisco se fosse per la presenza di “termiche” o di vento o della scarsa esperienza dei piloti o chissaddio, sembra quasi che l’aereo stesse per precipitare: dopo numerosi sobbalzi e scuotimenti laterali, un improvviso abbassamento di quota, seguito da una picchiata, che solo i bambini a bordo hanno vissuto come un gioco tipo montagne russe. Atterraggio altrettanto traballante con frenata brusca inclusa nel prezzo … ma finalmente siamo a terra: il sole splende la temperatura e gradevole e si sente l’odore del mare. Sono in Sicilia!
Appena a terra, chiamo Cicitto per tranquillizzarlo. So già che per lui sarà un periodo difficile. Ma è ormai un anno che non vedo i miei…
Ritiro bagagli lungo, nonostante la nuova struttura aeroportuale. E nell’attesa sembra sempre di essere al 12 Giugno, che quando non li vedi li senti, con le vocine di tre toni più alte di qualsiasi umana possibilità, ora con straordinarie vocali aperte che solo il siciliano riesce ad avere.
Ad accogliermi mia sorella e mio cognato. E ci incamminiamo verso casa.
I paesaggi brulli e bruciati di una terra assetata da mesi di siccità e, quelle poche volte che ha fatto cattivo tempo, l’ha fatto davvero cattivo, con grandinate ed alluvioni per l’impossibilità della terra riarsa di accogliere le non poche gocce.
Chiacchiere nel tragitto, m’informo sui miei nipoti e sulle loro fatiche scolastiche, che, a quanto pare, non sono state poi così faticose, nel senso che non ci hanno messo così tanto impegno, tant’è che Irene è stata rimandata a settembre con tre materie e Salvo, se qualche santo lo protegge, andrà settembre con quattro se non addirittura rischia la bocciatura. L’unica che si salva è Federica, impegnata nell’esame di terza media, ma che sembra non abbia problemi.
A casa, baci e abbracci, sistemo la valigia sul letto della mia camera da “figlio di famiglia” con il “lettino da educanda”, i miei famigerati farmaci in frigorifero e s’incomincia con le frasi convenevoli, per poi passare ai pettegolezzi su tutto il vicinato. Per lo più è un “Bollettino di Guerra” su chi è morto e su chi è malato grave: tumori e infarti sono all’ordine del giorno, non mancano ictus, aneurismi dell’aorta o celebrali (a scelta), qualche sclerosi multipla, tralasciando incidenti di vario genere e morti per cause naturali (vedi vecchiaia).
Il tempo, sebbene caldo non sembri dei miglior e lo faccio notare a mia madre, che mi rassicura che qui non piove da mesi e che non c’è nulla da temere…
Le ultime parole famose!!!
Quella stessa notte è arrivato una sorta di tornado, che ha scosso le persiane, fatto sbattere le porte e ribaltare i vasi di pomodori e di basilico che mio padre ha voluto mettere sul balcone (… “così non devo scendere nell’orto per farmi un’insalata” …). In tutto questo trambusto, mia madre dormiva…
La domenica è giorno di pranzo collettivo, nel senso che, per tradizione ormai consolidata da diciotto anni e più, tutta la famiglia, con consuoceri e collaterali e affini, si riunisce, ora a casa dei miei ora a casa dei consuoceri.
Si prepara il tavolone in cucina. La casa dei miei genitori è strutturata per essere enorme e riusciamo a sederci a tavola comodamente anche in quindici, ma questa volta eravamo solo dodici (si sta più larghi).
Ritrovo Venere e Pesce (ora si chiama così, ma è stato Pulce e anche Cutupiddu), entrambe più in carne e forse meno felici, Maria che cerca al solito di fare da mediatore e i suoceri di mia sorella, che, come anche i miei genitori, sembrano sempre più vecchietti.
Il signor Turi, come al solito inizia il pranzo con le sue solite battute: “Buon magiamento a tutti” (che tradotto dal siculo, vuol augurare buon prurito a tutti, alludendo a pruderie inguino-sessuali) e poi “Mangiate, perché un giorno sarete mangiati” (sottintendendo che solo gli altri saranno mangiati, cioè morti, ma non lui).
Piccole sciocchezze, che se non dicesse, staremmo in attesa, lasciando freddare il pranzo.
Pranzo ottimo, con ogni ben di dio, per almeno venticinque persone, perché mia madre dice: “… e se poi a qualcuno ci venisse il desiderio,’chè dobbiamo fare il mangiare contato?!... “
Si comincia con pasta alla Norma (salsa fresca di pomodori e basilico accompagnata con melanzane fritte e ricotta salata grattugiata al momento), a seguire pollo al forno con patate e pomodorini, cotolette, accompagnate da insalata fresca e melanzane panate, vino, acqua, dolci gentilmente offerti dal signor Turi, caffè e chiacchiere a volontà. Il tutto con il sottofondo delle corse del MotoGP.
Finito il pranzo, ad un orario improbabile del pomeriggio, io mi ritiro in camera dove finisco di leggere il mio libro e decido di provare la mia chiavetta internet della TIM comprata apposta per il viaggio per fare in modo di potermi commettere con Cicitto senza dover passare dai computer degli altri, tra l’altro, prima di partire, facendo una prova di connessione tramite messenger, mi accorgo che il mio PC non riceve i suoni, ma che purtroppo, non si può aggiustare così facilmente, ma bisognerà inviarlo alla “casa”, tanto più che è ancora in garanzia.
Comunque, la connessione con la chiavetta è del tutto impossibile.
Giramento di coglioni!
Cinquantaquattro euro buttati al vento e l’impossibilità di vedere il Mio Cicitto.
Cerco se ci siano delle reti Wireless disponibili, senza password di protezione a cui agganciarmi. Ci sono ma dalla mia camera non si collegano. Provo a girare per casa con il PC in mano come un rabdomante impazzito, anche riprovando con quella schifida chiavetta TIM, che avevo voglia di catapultare giù dal balcone. Quand’ecco il miracolo! Non la TIM ma una rete Tiscali, con una ricezione bassissima, ma che mi permette di connettermi, nell’angolo più remoto del gigantesco soggiorno, tra uccelli impagliati, orologi a pendola fermi da anni, trombe di tritone ed altre conchiglie, la collezione di bambole con il volto e le manine di ceramica ed un’infinità di altre ciarpamerie collezionate in tanti anni di mia assenza dalla casa natia.
Ma chi se frega! L’importante è riuscire a comunicare!
La sera stessa ci mettiamo in contatto e sembrava una situazione paradossale: io che parlavo, ma non sentivo, lui che sentiva ma che parlava a gesti ed era costretto a scrivere ed io che dovevo aspettare di leggere per poter rispondere. Intanto, comunque ci vedevamo, ed era bellissimo!!!
Il lunedì 21, inizio a leggere il nuovo libro (ne ho portati quattro: uno di Camilleri, uno di Busi e due della Litizzetto). Ho preferito quello di Aldo Busi: una sorta di reportage di viaggi e vacanze al limite del paradosso, raccontate sempre con la sua maestria linguistica e il suo acido sarcasmo nei confronti della vita e degli uomini.
Oggi è giornata di “parmigiana di melanzane” e mia madre, come sempre, ne ha preparato per un esercito.
Ottima e abbondante ed io abbondo nelle porzioni, tanto che mi sento un po’ appesantito, ma sottovaluto, pensando che non sono abituato alla cucina robusta, che il mio stomaco sia irritato dai farmaci e che, comunque, basterà un buon protettore gastrico e un po’ di tempo per la digestione e tutto si risolve. Tanto che la sera faccio il bis con la parmigiana rimasta, che scaldata è ancora più buona che a pranzo.
Notte di dolore!
Un dolore viscerale sordo e continuo, con accenni di nausea, sentore di dover andare in bagno, ma non riuscivo a far nulla.
L’indomani ero un po’ uno straccetto, il dolore, prima prevalentemente gastrico ora si era trasferito anche all’addome, e nemmeno i gastroprotettori hanno efficacia. Un grave sospetto: “… e se fosse un’ulcera duodenale, sopita fin ora e scatenata dal cibo e dal vino robusto …”.
Mi tengo mentalmente pronto a chiedere di essere portato al pronto soccorso se il dolore non si attenua.
Intanto, pasta in bianco, con le solite porzioni di mia madre, cioè per almeno tre persone.
Nel pomeriggio cominciano i primi segni di dissenteria. Alleluia!!!
Non certo per la dissenteria che mi torceva i visceri, ma perché, finalmente, ho potuto fare auto-diagnosi di enterocolite infettiva, presumibilmente di natura virale.
Sono un GENIO!
Inutile tediarvi con particolari tecnici sul decorso della malattia. Riso in bianco con porzioni da camionista, Disseten e fermenti lattici.
Ovviamente, niente mare. Ma mi consolava il fatto che il tempo non fosse dei migliori, tanto da dormire con il piumone e di giorno tenere jeans lunghi e camicia a maniche lunghe.
In compenso non ho fatto altro che starmene sdraiato, sotto il mio piumone, al calduccio, tra la lettura ed il dormiveglia, alzandomi solo per andare in bagno o per mangiare la mia mega porzione di riso in bianco.
In verità, quando si apriva qualche spiraglio di cielo terso, era di un azzurro travolgente ed il sole era davvero caldo, c’era anche un’arietta fresca che quasi pareva di essere in primavera, specie la sera.
Cicitto, intanto, mi ragguagliava sul meteo della Brianza e della Bergamasca: ha piovuto anche lì, con relativa abbassamento delle temperature.
Posso proprio dirlo: un periodo di merda!
Poche escursioni, fuori dalla casa avita: una capatina al supermercato per prendere del prosciutto cotto, in previsione di uno svezzamento dal semplice riso in bianco, con relativa burrasca verbale tra mio padre e mia madre su sciocche incomprensioni di tipo logistico.
Diventare vecchi fa diventare più insofferenti. E come sarò io alla loro età?
Sicuramente un gran rompicoglioni con tutte le mie manie da precisetti.
Giovedì pomeriggio, in pieno trip nazional-calcistico, per la partita dell’Italia, non so neanche con quale squadra, con mia sorella e una delle nipoti al seguito andiamo a comprare il regalo per il cinquantesimo anniversario di matrimonio dei miei genitori. In effetti, la data dell’anniversario è già passata da un pezzo, ma si è deciso di festeggiarla, tutti insieme, ora che ci sono pure io.
Dunque, ci troviamo a guidare per strade completamente deserte, al limite dell’irreale, entriamo in un mega negozio in cui tutti gli addetti alle vendite sono davanti ai maxi schermi, tutti sintonizzati sullo stesso canale, dove una Nazionale deludente chiude un’avventura deludente in terra d’Africa. Ed il mio commento è: “Toglietegli gli stipendi!!!”. Se l’unica cosa che interessa loro sono i soldi e la popolarità, colpiamoli su questo. Queste signorine del calcio, che non fanno altro che GIOCARE, sputtanandosi tra una discoteca e l’atra, ma senza curarsi di fare ciò per cui sono profumatamente pagati, vanno mandati tutti a casa, a LAVORARE sul serio, altro che scuse e giustificazioni da tifoso.
Alla fine, a tutti coloro i quali si disperano e si avviliscono per questi nullafacenti, che cosa ne viene in tasca? Spendono paccate di soldi in decoder satellitari per vedere le partite, altri soldi in biglietti e trasferte negli stadi, si ammazzano e si scannano, in nome di un ideale di squadra, che alla fine non è condiviso dagli stessi giocatori, che non vedono l’ora che ci sia qualcuno che li paghi di più per raccattare baracche e burattini e partire per nuovi lidi, verso i quali provare lo stesso disinteresse che provavano prima.
Finita questa invettiva calcistica, torniamo al regalo da comprare e, questa volta, posso decidere anch’io.
Prendiamo un telefonino, giusto giusto per loro: numeri grandi, sportellino richiudibile e facilità d’uso, buona marca e buon prezzo.
Una tantum mi sento contento di aver potuto scegliere.
In serata, sono stato invitato da Maria ad uscire con un gruppo di vecchi amici.
Accetto, anche perché pare che la terapia d’urto abbia sortito effetto e, tranne un lieve risentimento addominale (pare di aver preso un pugno nella pancia) e un po’ di meteorismo, per il resto mi sento abbastanza bene.
Passa a prendermi per le otto e venti ed in macchina c’è Alessandra: uguale a sempre, o quasi. Come su tutti, il tempo passa e lascia il segno, tanto più su chi ha avuto grossi dispiaceri.
Arrivati in piazza, posteggiamo e troviamo Sara, Linda e fidanzato. Aspettiamo solo l’arrivo di Alfia con marito e figlie. C’è fresco e così entriamo da Mario “Alla Mansarda”, anche perché l’idea è di fare una sorpresa ad Alfia.
Eccoli. Abbracci, baci. “Sei sempre la stessa … Come sei cambiata … Ti trovo più magra … Ti trovo più in carne …” Il festival di tutte le frasi fatte che si possono dire quando rincontri un vecchio amico. Quando la verità è che siamo tutti cambiati … E come potremmo non esserlo!
Inclemente il tempo passa sulle nostre vite.
E tanto più tempo passa tra un incontro e l’altro e tanto più ti sembra drastico il cambiamento.
Facciamo battute salaci, scattiamo foto ricordo, cerchiamo nella memoria gli episodi più divertenti, si ordina da bere e da mangiare … e tutto fila liscio, fino a quando non si comincia a tirare fuori i propri dolori e propri malesseri.
Ed è così che scopro che Alfia ha perso il padre e Alessandra la madre ed entrambe ne soffrono ancora.
Ma la serata volge al termine. Domani è Venerdì, ancora una giornata lavorativa.
Quindi saluti, abbracci, promesse di non far passare così tanto tempo prima di rivederci … insomma tutto il campionario.
Riaccompagniamo Alessandra a casa e passiamo a prendere Linda, che si era attardata con il fidanzato, il quale ci fa l’onore di mostrarci il suo nuovo compagno di gioco: un IGUANA. Sì, non sto scherzando, un vero iguana in squame, zampette e coda, ancora un cucciolo che dovrebbe diventare, sempre che sopravviva, di un metro e mezzo di lunghezza.
La domanda sorge spontanea: “Che cacchio te ne fai di un iguana?” … “Non potevi continuare a giocare con il piccolo lucertolino che hai nelle mutande, senza scomodare quella povera bestiolina tropicale?”…
Ma queste sono domande a cui non avremo mai una risposta. Forse, un giorno, Voiager o Quark arriveranno a risolvere il mistero.
Cicitto l’ho sentito al telefono intanto che eravamo in macchina. Ci sentiamo almeno due volte al giorno, grossomodo agli stessi orari di sempre, e , quando i rispettivi PC lo consentono, riusciamo anche a vederci, comunicando con lo strano linguaggio di scrittura e gesti a cui ci siamo dovuti adattare.
Venerdì 25, giorno dedicato a Lucia.
Mi sveglio sufficientemente per tempo, essendomi addormentato tardi (le cinque del mattino, circa).
Mi sistemo ed aspetto che venga a prendermi Lucia.
Negli ultimi mesi, ha vissuto un periodo piuttosto difficile: prima la perdita della madre, che seppure anziana e un po’ rompiscatole, ha comunque lasciato il segno; poi la morte dell’ex marito, che tanti problemi le aveva causato, ma la sofferenza dei figli per la sua dipartita è stata anche la sua; poi, per finire in bellezza, un accidente tra capo e collo, nel vero senso della parola. La investono con la macchina, bloccata con il collare per un bel pezzo; ma non è finita: ecco che arriva un ictus che la blocca a casa per sei mesi, tra ospedale e riabilitazione. Per fortuna, si è risolto abbastanza bene, non lasciando altro strascico che un a lieve balbuzie, specie quando è sotto tensione.
Io ho seguito tutto il susseguirsi degli eventi a distanza, sentendoci per telefono e cercando, per quanto possibile di rincuorarla e rassicurarla sul buon esito della situazione.
Ora la rivedrò, dopo un anno di distanza e tanti eventi di mezzo.
E’ sempre lei, a parte la balbuzie e una sorta di lieve infantilismo, ma lei ci ha sempre giocato a fare la sciocchina per far fare a me il genio.
Baci, abbracci, commozione. Saliamo in macchina e incomincia un balletto: “… Scegli tu … no scegli tu … ma tu dove vuoi andare?... a te dove piacerebbe?...”. Estenuante, tanto che mi spazientisco … ed è in quel momento che mi rendo conto che lei è davvero vulnerabile. Cambio tono.
Alla fine, decidiamo di fermarci a mangiare all’Atlantis, sul lungomare di Fondachello.
Prima di entrare ci scambiamo i regali, poi cerchiamo di capire dove poter mangiare, ma inizia tutta una diatriba con la signora del ristorante, di cui non capivo la ragione, su dove fosse posizionato lo scorso anno il ristorante. Alla fine, si risolve la controversia, o forse rimane solo in sospeso, e ci si fa accomodare a bordo piscina. Ordiniamo, chiacchierando amabilmente, come due vecchie comari in vacanza. Il cibo è buono, il posto è bello, il cielo è limpido e l’aria è calda, c’è anche un bel ragazzo che fa il bagno ed una bagnina che è palesemente lesbica.
Un bel pomeriggio, seduti sotto l’ombrellone, con il riverbero dell’acqua, parlando di tutto un po’.
Alla fine, lei vuole offrirmi il pranzo, ma non vuole essere lei a pagare e mi passa sotto banco una banconota. E’ inutile che provi a ribellarmi a queste bizzarrie: le voglio troppo bene! E cosi chiediamo il conto ed io pago, in sua vece e lei è contenta.
A questo punto andiamo a casa sua, che io avevo visto solo da fuori, prima che lei la comprasse.
In casa ci sono Valeria con una sua amica e Giovanni.
Entrando, devo ammettere, ho avuto un momento di smarrimento: purtroppo me l’aspettavo un po’ più grande, mi aveva detto che fosse piccola, ma non pensavo effettivamente tanto piccola.
Come le ho anche detto, lei si è inventata una casa che non c’è! Non ci sono spazi, non c’è molta luce, tutto è concentrato in pochi metri quadri. Da una scaletta ripida si passa al piano superiore dove c’è la cameretta dei ragazzi e da qui si accede ad un bagno piccolino e tramite un’altra scalettina si arriva al piccolo terrazzo dove si trova una verandina che fa da lavanderia e ripostiglio e, in un angolo del terrazzino, c’era Luna, il loro cane.
L’umido, che un tempo aveva cercato di eliminare era di nuovo riaffiorato, rovinando la carta da parati che ora appassiva sulle pareti. Tutto aveva un non so che di decadente, con una vena creativa, che aveva altresì qualcosa di distonico.
Ma lei è così felice ed orgogliosa della sua casetta, da amare anche la macchia di muffa che lentamente sta degradando l’albero che lei ha dipinto sul muro in uno dei suoi attacchi creativi.
Come disilluderla?!
Ho, comunque, insistito che al più presto chiami un muratore che le sistemi il problema dell’umido, prima che arrivi l’inverno.
I ragazzi escono e noi ci fermiamo a guardare le foto sul computer. Poi si decide per un giro in macchina e, sul percorso, diamo un passaggio a Valeria ed un’altra delle sue amiche (che a me pare decisamente gay).
Essendoci una messa di suffragio per la madre e l’ex marito, Lucia decide che Valeria debba andare, in rappresentanza di tutta la famiglia e lei, carinamente accondiscende. Io, notoriamente anticlericale, non capisco questa necessità di dare soldi al parroco, solo per nominare un nostro defunto in una normale messa di routine: fammi almeno una cerimonia solenne, con tanto di elogio e cori e canti e tutto il cucuzzaro. Ma,ovviamente, la mia idea non è condivisa da una fervente cattolica, qual è Lucia.
Comunque, noi lasciamo Valeria sul sagrato, per assistere alla messa, mentre noi ce ne andiamo in giro per via Gallipoli e poi Corso Italia, fino a raggiungere piazza Carmine, dove ritroviamo Valeria, appena uscita da una messa ultra rapida: padre Diego avrà avuto altro da fare.
Ho fatto diverse foto per tutta la città e con loro e, alla fine, ormai le sette passate, mi riaccompagnano a casa.
Le stringo fortissimamente, tutte e due, e mi sembra quasi di lasciare due bambine spaurite. Valeria è già una donna fatta, alta, fisico atletico, bei lineamenti, aspetto vagamente lesbo, ma in fondo, nonostante i suoi ventuno anni, è rimasta una bimba. Mentre Lucia, che tempo fa aveva acquistato forza e carattere, ora sembrava fragile, vulnerabile, persa in un mondo fantastico in cui tutto è a misura di Lucia, fatto di particolari che non fanno parte di un disegno generale, in cui l’orizzonte è tutto compreso nella finestrella che da su un giardino che non c’è. Lei è la poesia fatta persona, che non segue regole grammaticali, né canoni sintattici, solo lo slancio della fantasia e dell’illusione.
Ci salutiamo sul cancello e mi sfugge un lungo sospiro: commozione, o rimpianto per averla lasciata andare da sola, ancora una volta, ad affrontare le sue paure …
Rientrato a casa, mia madre mi dice che sta sera, per cena ci saranno arancini di riso, fatti da mio cognato.
Attendiamo che arrivino anche Anna, Sebastiano, Irene e Salvo per metterci a tavola per cena. Federica è partita con una sua amica e la famiglia di lei per Vulcano, dopo tanto dibattere se fosse il caso. Ma, alla fine, mia sorella ha ceduto alle pressioni della figlia.
Chiacchiere e discussioni sulla mala sanità e sull’incidente occorso a Sebastiano, nell’impianto del ICD. In effetti, di incidenti ne sono capitati troppi, tanto da mettere in dubbio le leggi della statistica. Ora si ritrova con una sgradevole lesione da ustione da radiazioni sulla schiena, che, probabilmente, guarirà tra molti mesi.
Andati via i ragazzi, mi metto in contatto con Cicitto, tramite messenger, con il nostro articolato sistema di comunicazione, e mi sono anche eccitato, intanto che parlavamo … e gli e ne ho dato la prova via web …
Divertente! Ma lui si è imbarazzato ed abbiamo troncato il piccolo gioco che avrebbe potuto essere.
Tornato in camera, ho dato libero sfogo alla fantasia. Ma non è la stessa cosa. Fare l’Amore è un’altra cosa … certo meglio che niente!
Sabato, altra giornata di relax.
Mi sono attardato nel letto ed il resto della mattinata è volato stando un po’ al computer e ripensavo alla giornata di ieri.
A pranzo, abbiamo mangiato stando in balcone, sebbene ci fosse un po’ d’arietta, si stava bene.
A fine pasto, si è intavolata una discussione sulla difficoltà di comunicazione.
Ho cercato di far notare come la comunicazione tra genitori e figli fosse improntata su dei canoni di scontro, di tensioni non risolte, in cui si usa l’aggressività perché non si ha il coraggio della propria emotività, in cui le affettività vengono castrate e negate per paura di esporsi, per timore di soffrire se non adeguatamente corrisposte. Colpa è anche dei nostri genitori, che non sono mai stati educati a comunicare. Ma questa non può e non deve essere una giustificazione. Se c’è stato un errore nelle generazioni precedenti, perché noi dobbiamo reiterarlo, se sappiamo benissimo che ci sono delle vie alternative, se sappiamo che ci sono dei mezzi che ci permettono di superarlo e risolverlo.
Ogni giustificazione è buona per tirarsi indietro. E’ così facile dare sempre la colpa a qualcun altro o a qualcos’altro, o pensare che in qualche modo tutto si aggiusterà, “se ce l’abbiamo fatta noi cela faranno anche i nostri figli”. Ma il punto è: noi ce l’abbiamo fatta davvero?
Sempre in conflitto con noi stessi, ci ritroviamo a combattere con tutto ciò che ci circonda. Lottiamo con i nostri figli, perché loro non commettano i nostri stessi sbagli, ma quali sono i modelli che stiamo dando?
Abbiamo paura delle proprie paure! Ed il timore di affrontarle ci blocca.
Se vogliamo davvero bene ai nostri figli, facciamo un piccolo sforzo di volontà ed affidiamoci a qualcuno, che ci possa dare le chiavi per aprirci finalmente al mondo.
Chi ha orecchie per sentire lo senta!
Nel pomeriggio è venuto a trovarmi mio cugino, con la bambina e mia zia Tina.
Ci siamo fermati a chiacchierare, intanto che Eleonora, smilza e con lo sguardo acceso, correva per il balcone e mia madre e la sorella si raccontavano gli acciacchi ed i malanni.
Frattempo la temperatura si faceva più fresca ed io che ero in calzoncini e maglietta ed infradito, ho cominciato ad avere freddo.
Mi fa sempre molto piacere ritrovare mio cugino Salvo, con il quale siamo cresciuti da piccoli come fossimo fratelli, abbiamo condiviso tutte le stupidate tipiche dei ragazzini, fino a che siamo un po’ cresciuti e, necessariamente, abbiamo fatto percorsi diversi. Per anni lui è stato un puttaniere incallito, arrivando ad avere anche tre ragazze nello stesso periodo. Poi si è dato una ridimensionata, ha messo la testa a partito: ha preso il diploma che non aveva raggiunto quando era in età da studio,ha trovato un lavoro in università, è diventato padre e, sicuramente, è questa la veste in cui lo vedo meglio: attento, premuroso e responsabile. Bravo Salvo!
Dopo cena, sono passati a trovarmi Tiziana ed suo compagno Giuseppe.
E’ sempre carina, tenera, con quella sua fragilità e modestia che l’hanno sempre contraddistinta.
Abbiamo ricordato i brutti momenti vissuti nei mesi in cui sua mamma si era aggravata ed in fine si è spenta, dopo una lunga agonia, per il tumore che l’ha devastata.
Ora lei sta cercando di ricostruire la sua vita, anche se con difficoltà, che ancora le si frammezzano. Ma, per fortuna non è da sola.
Andati via loro ho sentito il Mio Cicitto al telefono e poi abbiamo ritentato la connessione web, ma la tecnologia ci ha beffati, interrompendosi il collegamento in continuo, tanto che, alla fine abbiamo desistito e ci siamo dati la buona notte.
Ma mica ho preso sonno. Sono rimasto sveglio a girovagare sul computer fin oltre le tre e poi a leggere, anche se con un vago senso di torpore, che mi costringerà, l’indomani, a rileggere diverse pagine.
Ed è di nuovo domenica.
Essendomi addormentato così tardi, mi sono svegliato altrettanto tardi.
Mi sono crogiolato nel letto e poi in bagno per barba e doccia. Bevuto il mio Actimel, assunte le mie pillole, gustato il caffè, mi sono preparato per andare al bar, da mio cognato.
Come ogni domenica, il rito del pranzo collettivo non si può saltare.
Intanto che andiamo in macchina, mi chiama la “mamma adottiva”, per sapere della mia dissenteria e per raccontarmi le ultime cose, in quel di Mondonico.
Entrato al bar, incrocio subito Pesce con sua nipote Lisetta. C’è parecchia gente in un via vai di vassoi di paste e pasticcini, di torte gelato e granite, mangiate alle dodici e mezzo (“… tanto si va a tavola tardi, intanto chiudo un buco …”). Passo in laboratorio dove c’è un gran fermento: torte da decorare, pasticcini da inzuppare nel cioccolato, brioches da infornare, polvere di farina e zucchero a velo. Venere passa più volte chiedendo dei cannoli, al volo, Maria che sollecita le torte … un vero marasma, nel quale si muove con gran disinvoltura Orazio, collaboratore ed amico di Sebastiano, entrato nel laboratori quando era ancora un ragazzo e non ne è uscito più: più che un collaboratore, una vera spalla su cui poggiare.
Sentendomi d’impaccio, stavo sulla porta, ma mia sorella mi recluta a dare una mano con la piccola pasticceria da riporre nei vassoi per il banco espositivo. A me si unisce anche mia madre, molto più esperta, per tutte le ore passate a dare una mano nei momenti di necessità.
Mio nipote Salvo, visti i risultati scolastici, è stato reclutato per il bar e pare tutto compreso nel ruolo.
Verso la una, s’innesca una discussione tra genitori e figlio, a cui non voglio assistere, in cui, come sempre, c’è un problema di fondo di comunicazione: urlata, ognuno dalle proprie posizioni, senza la volontà di fare il ben che minimo movimento di avvicinamento.
Ormai è quasi pronto per andare a tavola, e chiamo Cicitto, altrimenti chissà a che ora mi sarebbe stato possibile, conoscendo i pranzi della domenica. Ovviamente, non mi posso dilungare, né posso esplicitare tutto ciò che stava succedendo. Ma ci risentiremo dopo.
Menù del giorno: panzotti alla domenicana in salsa di noci, arrotolato di pollo arrosto con funghi e piselli, contorno di cuori di carciofi panati e frittelline di patate, vino bianco e rosso, acqua, bibite varie, frutta (anguria, pesche e mele) e, per finire, dolci vari più un semifreddo alle mandorle coperto di cioccolato.
Sento, nuovamente, tornare un senso di rigurgito da indigestione.
La conversazione del pranzo è rimasta incentrata sui mondiali di calcio, di cui conoscete già la mia visione, per poi finire con i problemi di Venere.
Ho cercato di spiegarle che le crisi di ansia e di panico vanno superate sia con l’aiuto farmacologico che con la terapia del linguaggio, che non ci si può appoggiare sempre sugli altri, ma che bisogna trovare la forza ed coraggio di affrontare le proprie paure, guardare in faccia il “mostro” e dire: “Io ti posso sconfiggere, perché lo voglio fare!”. Bisogna prendersi le proprie responsabilità, essere coscienti che siamo stati noi, con il nostro agire o non agire, a lasciare che alcune cose accadessero.
Come dicevo in un altro contesto, è fin troppo facile dare la colpa a tutto ciò che è fuori di noi, quando noi non abbiamo fatto nulla per evitarla o, magari, l’abbiamo assecondata, se non addirittura, voluta.
Parole che sono troppo vere per poter essere ascoltate. Meglio lasciar perdere e cambiare discorso. Far finta di niente … Fino alla prossima crisi, fino al prossimo attacco, quando si tornerà a fare i soliti ricatti morali: “Io sto male e tu mi devi stare vicino!”.
Ma ci sarà il momento in cui, chi ti sta vicino si sarà stufato di correre al tua capezzale di bambino capriccioso e ti lascerà affrontare, da solo, la tua paura. Ed allora, o ne esci vivo o muori definitivamente.
Che discorsi tristi, dopo una tale mangiata pantagruelica.
Meglio andare a fare un pisolino ristoratore e digestivo. Tanto più che, sta sera sono stato invitato ad assistere al saggio di danza di Linda, che si esibirà in una coreografia di danza moderna, al teatro Maugeri di Acireale.
Mi passa a prendere Maria e Irene, verso le otto e ci dirigiamo verso Acireale, dove giriamo un bel pezzo prima di trovare un posteggio. Fiori in mano, ci troviamo davanti al Maugeri, restaurato, dopo decenni di incurie. Bisogna attendere fin quasi alle nove per prendere posto e che inizi lo spettacolo, ma, intanto, lo spettacolo era già lì fuori, dove un nugolo di parenti ed amici, variamente agghindati con l’abito delle migliori occasioni e le acconciature più improbabili, con corbeillies di fiori, manco ad una prima della Scala e che di danza sapevano, forse, quanto un gruppo vacanze al villaggio turistico.
“ … Sua figlia quanti balletti fa? … Beh, dopo tanti sacrifici, loro e nostri … Ha saputo della Maestra? … Ma quanto era tesa mia figlia … “.
Commenti in ogni dove, ed intanto ci raggiunge Venere e Lisetta.
Si abbassano le luci, tacciono le voci e nel buio … incomincia una lagna colossale, suonata dal vivo, da un compositore locale, che è stato definito “Il nuovo Morricone”. Sarà, ma con quella musica e le diapositive di tutte le allieve, nel dietro le quinte, non sembrava un buon inizio.
Il conduttore della serata, che ho saputo in seguito, essere il marito della direttrice della scuola di danza (insomma tutto in famiglia), aveva la stessa pronuncia di Malgioglio. E pensare che io ho sempre detto a Cicitto, che quella di Malgioglio è un’inflessione assolutamente improbabile e che nessuno in Sicilia parla così.
Prima di entrare, avevo chiesto a Maria, ormai esperta di saggi artistici, quanto potesse durare, anche per rendermi conto dell’orario in cui poter sentire Cicitto. “ … In genere, togliendo l’intervallo e i saluti e ringraziamenti finali, (pausa di riflessione e di conteggio) un’ora e mezzo …”.
Le ultime parole famose!
Tre ore e mezzo di balletti di dilettanti allo sbaraglio!
Certo le bambine erano carine, nei loro tutù e nelle loro gaffes ed imperfezioni, tra il tenero ed il clownesco; poi arrivano le ragazzine, ed anche qui non si può pretendere molto da delle allieve; a seguire, il corso avanzato, in un tripudio di “tutto di più”, tra culone svolazzanti e spillungone anoressiche che si atteggiavano a Savina Savignano.
Certo una scuola di danza, specie se a pagamento, deve accettare tutti e, a fine anno deve far esibire tutti, per la gioia dei genitori paganti le rette (“ … Che se la ragazza è contenta … Uno lo fa con piacere … Ma poi i risultati si vedono … Certo che se la deve un impresario … Magari anche qualcosa in televisione … O alla Fiera Campionaria … “), ma chi ha occhi per vedere, dovrebbe evitare di illudere le ragazze ed i genitori.
La prima parte del saggio passa abbastanza velocemente, belle le musiche e con un’ottima acustica, scarse e un po’ noiose le coreografie. E, nel finale, un pistolotto terrificante, tra lo pseudo religioso, tipo sermone, al politically correct di Comunione e Liberazione, durato un’eternità, con il “Morricone dei Poveri”, che continuava a suonare come un invasato ed il “Fratello Segreto di Malgioglio”, che declamava versi incoerenti sull’Africa ed i bambini abbandonati e la necessità di fare adozioni a distanza.
Eravamo al limite del collasso, tra risate d’isteria e la vera volontà a farla finita, tagliandoci le vene o tagliandoci i coglioni ormai completamente triturati.
Finalmente l’intervallo!!!
Sono le dieci e mezzo ed, ancora, sembra che la cosa sia molto lunga.
Telefono a Cicitto, raccontandogli, per quanto possibile, gli eventi salienti ed intanto, ecco che parla “Malgioglio 2”, per richiamare il pubblico, per l’inizio della seconda parte. E giù a ridere, come dei forsennati.
Restiamo intesi, che se lo spettacolo dovesse finire, così come dissero le parole famose di Maria, entro la mezzanotte, ci saremmo risentiti, altrimenti ci rinviavamo all’indomani.
Inizia il secondo tempo …
Solita solfa, anche se, alcuni quadri, tratti da musical, erano abbastanza ben congeniati e, togliendo le necessarie imperfezioni, ritardi, vaghezze, … a tratti, non era male.
Chicca delle chicche, per dare il tempo alle ragazze di cambiarsi, il solito “Morricone”, ha suonato un'altra delle sue composizioni da colonna sonora, ed a completare la scena, uno degli insegnanti ha improvvisato un balletto, davvero ispirato. E, per chi ne avesse il minimo dubbio, vi dico subito che era UNA PAZZISSIMA, UNA VERA DIVA, la Isadora Dancan della Riviera dei Ciclopi.
Applausi a scena aperta!
Ma non cela facevamo più!
Venere, mezza stravaccata sulla poltroncina, che sgranocchiava una barretta energetica, io con la bocca riarsa per la sete, Irene e Lisetta al limite del collasso e Maria che, serafica, si lamentava solo che non era come quello degli anni precedenti.
Arriva il gran finale, i saluti ed i ringraziamenti, la consegna dei fiori e baci e abbracci e lacrime e ….. Basta! Non era umanamente possibile: nonne che mostrano i primi segni di Alzheimer (erano sane all’inizio), madri con il trucco sbavato e cadente, padri con i riporti ormai al vento, vestiti sgualciti e fiori appassiti. Sembrava di essere tornati dalle grandi manovre!
Era, ormai, mezzanotte e un quarto.
Ci muoviamo, verso l’uscita degli artisti, con i pochi ultimi temerari che sono riusciti a sopravvivere. Rimasti, più per ritirare le figlie (nel senso di portarle a casa, anche se il loro segreto intendimento è di ritirare, veramente, le figliolette dalla scuola).
Quando, finalmente, ci troviamo in strada, ormai in macchina, con la fame che divora le viscere, ci si rende conto dell’ora: la una meno un quarto.
Dove trovare un posto ancora aperto?
Idea geniale di mia nipote Irene: andiamo a mangiare il kebbab. Lo fanno buono vicino alla Villa.
E via, verso la Villa Comunale. Ma Stavano chiudendo. Ed anche l’altro, poco distante, era già chiuso ed il proprietario stava innaffiando le piante, fuori dal negozio. Stessa sorte per quello all’inizio di Corso Umberto.
Si decide di andare verso Acicastello, magari qualcosa di aperto ancora c’è. Ed in effetti, troviamo un asporto di kebbab, che chiudeva alla una e quarantacinque: eravamo ancora in tempo.
Mangiamo in macchina, intanto che Maria guidava (no, lei non mangiava), accompagnando a casa, prima Venere e Lisetta, anche perché eravamo ad un passo da casa loro, e poi noi.
Per strada, Linda e Irene si erano abbioccate e Maria ed io parlavamo, ancora dei “problemi di comunicazione”. Ma, arrivati quasi a casa, Irene si rende conto di non avere con sé le chiavi di casa e, conoscendo il sonno pesante della sua famiglia era un po’ in apprensione. Non sarebbe certo rimasta sul portone, sarebbe potuta venire a casa da me o da Maria, ma si risolve il problema con tattici squilli e messaggi.
Finalmente, tutti a casa.
Qui, l’aria è decisamente più fresca che ad Acireale, sia perché la città è sempre più chiusa, sia perché siamo un po’ più in alto. Comunque, fumo l’ultima sigaretta e mi metto a letto, finendo di leggere le ultime pagine del libro di Busi: mi ha lasciato un po’ di amaro in bocca, ha messo in luce un uomo disilluso dalla vita e dai rapporti umani, in cui non trova più alcuna consolazione, né aspettativa, né, tantomeno, speranze; un uomo rassegnato a vivere gli anni che gli restano nella solitudine peggiore: quella senza alcuna volontà di reagire.
E ora di dormire!
Il lunedì mi aspetta la festa di compleanno di Fabiana e, chissà, quali sorprese …
Lunedì 28. Mi sveglio verso le otto, a causa della luce che entra dalla porta-finestra, che la sera prima ho dimenticato sollevata di un pezzo, Ma ho ancora sonno, cerco di girarmi, cerco di riaddormentarmi, ma mi scappa la pipì. Tanto vale che mi alzi e mi liberi la vescica, altrimenti non mi riaddormento più.
E così è. Mi risveglio per le dieci e mezza, solite abluzioni, solite pillole, solito Actimel e caffè e, poi, mi siedo al computer a leggere. Quand’ecco che suona il telefono: è Rosetta che mi chiede se sono in casa. Beh, se ti rispondo dal telefono fisso, forse sono in casa. “… No, perché devo copiare delle canzoni, per la festa di sta sera, sul CD, ma non sono capace. Me lo puoi fare tu se ti porto il PC e tutto il resto? ...”.
Che dire? “Vieni”.
Arriva dopo un pezzo, carica come un mulo, del suo portatile, con relativi CD e chiavetta per connettersi, visto che i brani da copiare erano in un sito web. Accendiamo tutto, mettiamo la chiavetta, … ma questa ha bisogno del PIN, che lei non ricorda e che ha a casa.
“ … No, ma tu per intanto masterizzami questo che mi ha prestato la mia amica, io intanto vado a Linera a prendere i salumi, poi vado a Giarre, lascio la bambina da mia suocera, prendo il PIN e torno … “.
Meglio non discutere. La lascio andare a tutti i suoi impegni inderogabili e tutti in contemporaneità. Io, intanto, mi sistemo le mie cose e poi si vedrà il da farsi.
Era già l’ora di pranzo, ed arriva mio cognato e mia sorella, e si decide per una bellissima misurazione di pressione collettiva. Tutti malatoni, tutti agitati, ma l’unico con la pressione alta risulto io.
Ci mettiamo a tavola, più contenti e soddisfatti, apprestandoci ad assaggiare l’insalata di riso e la parmigiana di melanzane, quand’ecco che suona il citofono: è Rosetta.
“ … Ma, non me lo puoi fare tu, da solo, questo lavoro, che io devo andare a dare da mangiare alla bambina e poi devo trovare dello spago per arrosti, che devo appendere i festoni, che devo … “.
“Senti Rosetta, io ti voglio bene e sono tuo padrino di cresima e tuo testimone di nozze, ma come mi puoi chiedere di mettere dei brani, alternati quelli per bambini a quelli per i grandi, se non so neanche quali brani vuoi? Tu, ora, ti siedi un attimo e mi dici cosa vuoi ed in che ordine e, poi, te ne poi andare ad impiccarti con lo spago per gli arrosti con tutti i festoni ed i CD!!!”.
Alla fine, ne veniamo ad una. Lei va a casa, a fare tutto quello che ancora le resta da fare: cioè dire rivoluzionare il mondo, prima della festa per sua figlia; ed io posso, finalmente assaggiare la mia deliziosa insalata di riso.
Dopo pranzo, riesco in brevissimo a fare i CD che aveva bisogno, le porterò il PC e tutto il cucuzzaro, questa sera, quando andrò a casa sua, con l’incarico di portare anche la torta, che ha fatto Sebastiano.
E, per qualche ora, non voglio sentire e vedere nessuno!
Ho iniziato a leggere uno dei libri della Litizzetto, che adoro sia come intrattenitrice televisiva sia come scrittrice. Vero è che i suoi libri altro non sono che la trasposizione dei suoi monologhi, ma leggendoli, io me la rivedo, seduta sulla scrivania di Fazio, sentendone la voce, con la sua inflessione tipicamente piemontese.
Verso le sette, mi sono preparato, ho chiesto la macchina a mio padre (ogni volta mi sento come un diciottenne, che deve chiedere le chiavi di casa). Purtroppo, io sono già un guidatore svogliato, in più non conosco la macchina e, ancora di più, è la macchina di mio padre, che se anche le facessi un minuscolo graffio, sarebbe una vera tragedia.
Vado a prendere Irene e la torta, con relative decorazioni, ma mi rendo conto d’aver dimenticato a casa il regalo per Fabiana. Ripassiamo da casa e già mio padre va in allarme: “Cosa è successo?”.
Arriviamo a Giarre per le otto ed, a casa di Rosetta è già il caos. Ma non per gli ospiti, che ancora mancano, bensì per la bambina già sull’orlo dell’isteria.
Erano presenti le due suocere con relativi consorti, una nostra cugina con figlio di tre anni, e la madrina di “cuppuluni” (E’ antica tradizione in Sicilia che, oltre alla madrina ufficiale, ci sia una madrina affettiva, che, al momento del battesimo, lavi il “cuppuluni”, cioè dire, la cuffietta. Oggi, che non esiste più l’uso delle cuffiette per i neonati, tale madrina, lava il fazzolettino ricamato con cui viene asciugato il capino del bimbo, dopo essere stato asperso dal parroco con l’acqua santa. Ma io sono convinto, che questa pratica serva soltanto per riuscire ad avere solo un grosso regalo in più.)
Andiamo in terrazza, dove è stato posizionato un artistico gazebo in ferro battuto, buono per il giardino di una villa, con tanto di teli e drappi; ci sono festoni e palloncini, in un tripudio di Hello Chitty; tavoli e sedie ovunque ed uno stereo, che suona canzoncine per bambini, con tutto il repertorio. Solo che, mi rendo conto che alla bambina, di tutto ciò, non gli e ne importasse nulla, se non scaraventare a terra bicchierini e tovagliolini colorati, rigorosamente nei toni del rosa, il tutto in un attacco di capricci a go-go.
Quanto avrei voluto Tata Lucia, ma forse sarebbe stato meglio che ci fossero state tutte le tate di tutte le edizioni di “Operazione Tata”, anche perché, poco dopo, si è aggiunta Eleonora, completando così il trio infernale alla Dario Argento.
Altri ospiti, c’erano, ovviamente, mio cugino Salvo e la moglie, la coppia di testimoni di nozze di Rosetta, con i quali sono molto amici, un’altra coppia di cui lui è collega di lavoro di Santo (il marito di Rosetta), e, in ultimo, è arrivato il fratello di Santo, che ha preparato alcune delle cose che abbiamo mangiato.
Il menù era composto da quantità spropositate di salatini di ogni genere, a seguire, panini al latte con farciture varie, pizzette, arancini di riso e “cartocciate”, bibite varie, in ultimo la torta gelato e la macedonia.
Per tutta la sera, mi sono diviso tra mio cugino Salvo e Saro, il testimone di nozze, con mia zia Tina, che mi tampinava raccontandomi dei suoi acciacchi.
La povera Irene è stata reclutata come guardiana delle piccole belve e, comprensibilmente, non ne poteva più.
Il clou è stato il taglio della torta, con relative foto, che pareva di essere ad un matrimonio, in cui tutti gli invitati erano chiamati a fare la foto con la festeggiata, che, bellamente, infilava le mani nella panna, infischiandosene di tutti, con l’unico pensiero per i regali.
Alle undici, chiama Cicitto e, non so per quale arcano motivo, lui non riusciva a sentire nulla, mentre io sentivo benissimo, avendo perfettamente campo. Più e più tentativi con Cicitto spazientito e depresso, che inveiva contro tutta la tecnologia del mondo. Finalmente, in un angolo freddo e ventoso del terrazzo, si riesce a parlare, anche se, ovviamente, non in maniera esplicita e tranquilla, così come è nostro solito.
Lui si sente molto stanco, e ne ha ben donde, ed anch’io sono stanco di stare lontano da lui: mi manca terribilmente.
Intanto che parlo con Cicitto, mi arriva un messaggio da parte di Irene, che mi chiede se non fosse ora di accomiatarci (non erano queste le parole). In effetti abbiamo già preso fin troppo freddo, abbiamo sentito fin troppi strepiti di bambini viziati ed era anche quasi mezzanotte.
Saluti, ringraziamenti, riceviamo la bomboniera (anche) e ci avviamo verso casa.
E’ stata una serata sbagliata. Una festa per adulti mal assortiti, camuffata da festa per bambini, con tutti i colori e gli addobbi di un’infanzia mai finita. Un mito infantile di riunione di “amichetti” ormai cresciuti, che poco hanno in comune e che nulla hanno da raccontarsi. Tutto molto triste e vagamente decadente, di una fanciullezza che non si vuol lasciare andar via.
Mi sento un po’ stanco. Stanco di vedere coppie, che non sanno gestire la propria rabbia, neanche quando hanno ospiti a casa, che non sanno gestire i malumori dei propri figli, imponendoti di assistere alle loro discussioni, con enorme imbarazzo. Mi chiedo perché si riuniscano tante persone, se poi non segui i tuoi ospiti. A chi serve questa vetrina, piena di tante apparenze, se poi fai vedere che dietro c’è solo un palloncino sgonfio, che penzola tragico.
Sono davvero stanco!
Martedì 29, San Pietro e Paolo. Ed il primo pensiero è per Cicitto: gli mando un messaggio sul cell.
A metà mattinata, passa una signora per una “consulenza”. Dopo pranzo, un’altra. Ed il resto del pomeriggio tra sonnecchiamenti e lettura.
Ci prepariamo, per la serata di festeggiamento del cinquantesimo anniversario dei miei genitori.
Già, mio padre inizia ad entrare in un fermento, quasi isterico sulla scelta del ristorante, perché, a suo dire, non c’è posto per posteggiare, poi, con un giro di telefonate è tutto risolto: mia sorella ed i ragazzi vanno con la loro auto, partendo un po’ prima, per sistemare i fiori e portare la torta; i miei genitori andranno in macchina con i consuoceri; Maria, con Linda e Pietro, daranno un passaggio a me; dopo ci raggiungeranno Venere e Pesce.
Il ristorante è a Giarre, in cui già l’anno scorso eravamo stati con mia sorella: davvero carino, con una splendida terrazza fiorita, ricca di oggetti antichi, raccolti in anni di giri per rigattieri, inoltre, magnifiche piastrelle di maiolica di De Simone Padre, e foto antiche delle storiche corse della Targa Florio, che si correvano tra i tornanti della Timpa di Acireale.
Presi i posti, scattate diverse foto, ordinato. Ma la partita del mondiale incombeva da un maxi schermo ed il signor Turi, con Pesce, erano li, impietriti, tanto da dover portare loro le bruschette, davanti alla TV.
Il solito bailamme, quando si è in tanti, del “chi ha ordinato cosa”. Ma io mi chiedo: “Possibile che non ti ricordi cosa hai scelto dieci minuti fa, mentre ti ricordi benissimo cosa ha ordinato il tuo vicino di posto?” .
Ma tutti, alla fine, gustano la propria pizza (tranne Irene e Pesce, che hanno preso della carne), con una magnifica birra, che il proprietario del ristorante, serve in boccali che sono stati tenuti nel congelatore e che, al contatto con la birra, la cristallizza in deliziosi cristalli di birra ghiacciata che salgono in superficie con la schiuma.
Io, ovviamente, non potevo che chiedere la pizza “alla Norma”, rigorosamente, con melanzane fritte e ricotta salata: ottima!
Arrivati al momento dei regali, oltre il cellulare, comprato da noi figli, è arrivata anche un’enorme scatola, e li ho capito subito: la macchina per il caffè, che era stata lanciata come idea iniziale, è ricacciata fuori, come regalo di tutto il resto del gruppo (dovrà trovare il posto dove metterla … ).
Altre foto, altro giro.
Ecco la torta. Una strepitosa creazione di mio cognato, fantastica alla vista, quanto al palato, ricchissima di oro, sotto forma di rose dorate, anelli e cifre. Ovviamente, altro giro di foto di rito, con tutti. Ed in questo frangente, chiama Cicitto. Mancava proprio lui, a buon diritto avrebbe dovuto esserci, il mio compagno da sette anni, che condivide con me tutto, mancava in questo momento. Mancava a me!!! Ovvio, che gli altri, non conoscendolo neanche, non ne sentissero la mancanza, ma io sì!
Anche lui sta accusando il colpo della nostra lontananza, ma, purtroppo, la Sicilia per lui è off-limit , chissà ancora per quanto.
Saluti, baci, abbracci, e ci avviamo verso casa.
Mi sento stanco, fumo l’ultima sigaretta, leggo svogliatamente qualche pagina della Litizzetto e spengo la luce. Un sonno senza sogni, o meglio, nessun sogno che io ricordi.
La mattina del mercoledì vola velocemente: mi alzo verso le nove e mezzo, mi preparo e vado, con mio padre, in paese, per fare delle fotocopie; poi, passo da mia sorella, per chiedere i soliti dolcini alla mandorla, che tanto piacciono ai miei amici lombardi; tornato a casa, passa Rosetta con la bambina, sempre in continuo movimento incontrollabile ed incontrollato; per arrivare al pranzo.
A tavola, eravamo pochi, perché mancavano i miei nipoti (chi al mare, chi a ripetizione). Mia madre si è sbizzarrita in piatti a base di funghi (i porcini, che loro hanno raccolto sull’Etna quest’inverno): pasta con asparagi selvatici e porcini, petti di pollo al forno con patate e porcini, frittata con porcini. Mancava solo un’insalata con porcini, il melone con porcini e il caffè con porcini, ed avremmo finito in bellezza il pasto, con i porcini che ci uscivano da tutte le parti.
Pomeriggio, tra inedia e tedio e … non so neanche io cosa. Non avevo voglia di niente, neanche di dormire il mio solito pisolo pomeridiano. Ho finito col leggere il racconto che mi ha scritto Lucia, finendolo. Certo, è molto da limare e depurare, ma per una collana tipo Armony, potrebbe andar bene.
Mi sono, poi attardato in balcone a chiacchierare con mia madre. Ho cincischiato con il telefonino nuovo, che gli abbiamo regalato, impostando le funzioni che a loro potevano tornare utili. Come dico sempre: “Mia madre potrebbe litigare anche con il tostapane”, figuratevi con un cellulare!
Mio padre ha apparecchiato per la cena, in balcone e, sul tardi, arrivano mia sorella, Sebastiano, Irene e Salvo, mancava Federica, che era ad una riunione di fine anno, con le compagne di classe.
Già si sentiva aria di tempesta, da quando hanno chiuso gli sportelli dalla macchina. Salvo rampognava, perché voleva uscire un i suoi soliti amici, i suoi genitori che non vogliono che stia tutte le sere in giro, non si sa bene dove e con chi. Lui che rivendica il “DIRITTO” ad uscire, perché lavora alcune ore del mattino al bar, studia ai corsi di recupero, sta facendo il corso di sub e si sta preparando per la patente.
Attività validissime, se non fosse che, per dare una mano al bar viene pagato (seppur poco), i corsi di recupero li deve fare, obbligato dalla scuola, perché è stato rimandato in quattro materie, il corso di sub è una specie di regalo e non un’imposizione e la patente è una cosa utile.
Ma non se n’è potuto venire a una. In balcone tirava un’aria fresca, oserei dire gelida, tanto che ho indossato jeans lunghi e camicia a pesante, la cena è stata un tormento e lui si è rifiutato di mangiare. Ma non è uscito.
Mio cognato aveva portato il suo PC e, dopo cena, abbiamo visto le foto degli ultimi mesi ed io ne ho scaricate un po’ sulla mia chiavetta, anche per farle vedere a Cicitto, che ha chiamato per le undici e non vede l’ora che ritorni a casa.
Ormai manca poco. Venerdì 2, si riprenderà l’aereo verso la Brianza.
Ero stranamente stanco e già, verso le undici e quaranta ero a letto, ma non riuscivo ad addormentarmi. Mi sono rigirato per parecchio tempo, insofferente alle coperte, al caldo, alle zanzare. Sembrava che tutto fosse storto. Ma il problema è che, ormai, questo periodo di ferie incomincia a starmi stretto, ho bisogno di tornare alla mia routine.
Finalmente calo nel sonno.
Il giovedì, mi sveglio abbastanza presto, verso le otto ed un quarto, anche per il rumore che fanno gli addetti alla nettezza urbana ed il vociare dei venditori ambulanti. Mi alzo, con le mie articolazioni irrigidite, vado in bagno, prendo le mie pillole e torno a letto, cercando di riprendere sonno. Ma niente. Tanto vale alzarsi, definitivamente. Mi rado, faccio la doccia, faccio un giro sul computer, in attesa che arrivino Anna e Sebastiano, per andare a Catania, per il controllo settimanale della lesione da radiazioni, con cui sta ancora combattendo.
Ci avviamo verso Catania, per le undici passate. Il solito traffico cittadino, a cui, penso che non riuscirei mai ad abituarmi. Arriviamo in via Plebiscito al vecchio Umberto I°, un ospedale storico, che pur essendo stato riarrangiato (perché dire “ristrutturato” è dire troppo), evidenzia i segni del tempo: una struttura a padiglioni, poco funzionali.
Arrivati all’ambulatorio di dermatologia, attendiamo, vedendo passare ogni sorta di medico, paramedico e affine. Un paio di dottoresse sembrava che fossero alla serata inaugurale de festival del cinema, tanto erano tirate a spolvero. Alcuni dottori sembrava che andassero a zonzo, per riempire il tempo, prima dell’ora di pranzo. E tutti avevano l’aria svogliata di chi si chiede: “Perché proprio a me? … Me ne stavo così bene a casa mia! ... Quasi quasi ci torno …”.
Per fortuna, il medico che ha in cura Sebastiano, mi ha dato una buona impressione, nonostante il contesto in cui opera.
Gli ha fatto un curetage chirurgico, asportando, per quanto possibile, la fibrina che si è formata nella lesione. Lo rivaluterà tra due settimane.
Torniamo verso casa, e dovendo ripassare per il centro di Catania, si evidenzia “L’Antica Arte dello Strombazzamento”, cioè, quella maestria ad usare, in modo assolutamente inconsulto, il clacson.
Ovunque ti girassi suonavano, per qualsiasi motivo e senza nemmeno averne uno: così per non perdere l’allenamento. Devi girare a destra? Strombazzi! Devi cambiare corsia? Strombazzi! Devi salutare qualcuno, anche se non sei sicuro che sia la persona che conosci? Strombazzi!
Insomma si strombazza sempre, in un concerto, pari a quello che si sente negli stadi sudafricani.
Ma pensate più a trombare a casa e non a strombazzare per strada!!!
Arrivati a casa, tutti avevano già pranzato. Quindi, ci siamo sistemati sul balcone a gustare una deliziosa lasagna.
Ma la tranquillità è una vaga speranza. Salvo stava in soggiorno, in semi oscurità, dicendo di studiare Diritto; Federica era seduta in balcone, mentre Irene le agghindava i capelli a mo’ di boccoli … Quando ecco la fatidica domanda: “Mamma, mi accompagni al cinema con le mie compagne?”.
E da qui, si sono aperte le solite cataratte della guerra verbale, dei ricatti psicologici, delle minacce neanche minimamente velate. Orribile!
Non ne posso proprio più! Non vedo l’ora di tornare alla pace della mia vita quotidiana, dove non devo essere armato e corazzato verso tutti e tutto, dove non devo scontrarmi ad ogni piè sospinto, dove non devo scendere a mille compromessi, proprio mentre sono a tavola.
Mi chiedo se non fosse stato meglio se, Adamo ed Eva, anziché una foglia di fico, non avessero usato una pala di fico d’india, cosi da risparmiarci da progenie tanto difficili da gestire.
Alla fine, non so con quale tregua sia finita la battaglia, perché me ne sono andato, veramente irritato.
Mia madre ha deciso che, come ultima sera di permanenza in Sicilia, avrei dovuto mangiare il “Pane Condito”: pane fatto in casa e, appena sfornato, condito con pomodorini, olive, prezzemolo, olio, sale e pepe e poi, ad libidum, si può aggiungere formaggio, prosciutto e quant’altro t’ispira il cuore e lo stomaco. Ma io preferisco la versione classica, calda e fragrante e senza troppe aggiunte.
Nel pomeriggio, ho riposato un pochino. Ero stranamente stanco. Forse, non è poi così strano, viste le continue tensioni che tocca subire, dagli scontri generazionali.
Mia madre con la signora Enna (ormai eletta Zia Enna, ad onorem), impastano il pane e lo cuociono nel forno a legna, come si faceva una volta.
E’ stato bellissimo, assistere all’infornata, le ciambelle lievitate, che vengono prese con la delicatezza con cui si solleva un bambino, ed adagiate sulla pala da forno, per sistemarle sotto la cupola di mattoni arroventati dal fuoco. Prima di chiudere la bocca del forno, si versa un po’ di farina su un po’ di brace rimasta all’ingresso del forno e si recita una preghiera: “Santa Rusalia, janca e russa comu a Vossia”, invocando l’aiuto di Santa Rosalia, affinchè il pane diventi ben cotto e dorato (bianco e rosso come Voi).E’ questo un rito che si rifà a ricordi ancestrali, in cui s’invocava La Grande Madre, o Demetra, o le varie divinità della Fertilità, per avere abbondanza e prosperità.
Intanto si leva un profumo di pane appena cotto, che inebria.
A cottura ultimata, il pane viene condito e, possibilmente, mangiato caldo.
Per la serata, abbiamo sistemato in balcone, ci sarebbero stati tutti i soliti del pranzo della domenica, ma poi, per un contrattempo mancavano i suoceri di Anna.
Inutile dire, che ci sia stata un’altra discussione con Salvo, sull’uscita serale e sui suoi amici, ma come sempre, tutto si è risolto in una bolla di sapone, scoppiata con un urlo.
Passato questo momento, ricomincia Federica, che un po’ scherzando un po’ provocando, dice di voler provare a fumare. “Bene” gli dico, “Vai a prendere il pacchetto e fumane almeno venti”. Lei, con fare di sfida, va e ne prende una, ma non l’accende ed io la sprono a farlo: deve avere il coraggio delle proprie azioni.
“Le scelte della vita non sono come provare un vestito, che se non ti piace lo cambi. Una volta che hai provato è per sempre! Non puoi più tornare indietro, l’esperienza è stata fatta e niente ti restituirà l’integrità che avevi prima. Non si fanno mai scelte per sfida, per provare d’avere coraggio, ma perché davvero si vogliono fare e sapendo a cosa si va in contro. Ed ora se vuoi fare un tiro, sappi che poi non potrai dire ho provato, ma ho fumato.” Testuali parole.
La serata è finita con i regali: mia sorella mi ha regalato un accappatoio, più un set di lenzuola con asciugamani (non so come farò a mettere tutto in valigia, visto che ci sono i dolci, i regali per La Mamma ed altro ancora), Rosetta è passata a salutarmi, con Santo e Fabiana e mi hanno regalato un telo da mare ed una maglietta.
Andando a letto, mi sento un po’ stanco. L’indomani sarà una giornata pesante.
Venerdì 2 luglio. Mi sveglio per le nove, incomincio a preparare la valigia, anche per capire cosa riesco a farci entrare. Come previsto alcune cose non possono fisicamente entrare. Più avanti le recupererò.
Faccio la doccia e vado al Bar, per mangiare la prima e unica granita della stagione: panna sul fondo della coppa, granita alla fragola e ancora panna sopra, accompagnata con una fragrante brioche ancora calda. Una vera goduria!
Quelle che in Sicilia si chiamano granite, non hanno nulla a che vedere con quelle delle altre regioni, dove s’intende, invece, la granatina, Qui ricordo più un sorbetto, qualcosa di cremoso, che non è il gelato: è granita!
Ho incontrato anche Nino, che non è cambiato di una virgola, se non un po’ di pancetta e qualche ruga in più.
Ho salutato la signora Graziella e il signor Turi, Maria e Orazio e sono tornato a casa a sistemare le ultime cose. Siamo davvero agli sgoccioli.
Mia madre avrebbe voluto cucina pasta al pesto di basilico fresco, ma dopo una granita con panna e brioche, non credo che riuscirei a mandar giù molto. Forse un toast.
Mia madre ha messo in tavola, come se fosse un giorno qualunque, cioè dire un pranzo in piena regola, con pasta al pesto, cotolette, insalata e toast.
Come al solito, la discussione dell’ora di mangiare, con Irene che chiede di uscire ed il padre che si lamenta che le figlie non hanno messo in ordine, lei che recrimina che i fratelli sono usciti anche se non hanno fatto nulla in casa … Tutto estremamente noioso! Ma per fortuna è l’ultima!
Alla fine, ho deciso di portare un bagaglio a mano, nonostante la sacca del computer, e così sono riuscito a portar via tutto.
Ci abbracciamo sul cancello di casa: è sempre un momento difficile, specie per mia madre, sul punto di piangere. Ci rivedremo solo tra un anno … ed è lunga. Ma non posso fare diversamente, spostarmi, con pochi giorni di ferie, è sempre problematico.
Comunque, siamo in macchina, mia sorella alla guida, alla volta dell’aeroporto. Intanto che loro posteggiavano, ho fatto il check-in, poi, visto che ancora ci sarebbe voluto parecchio, prima dell’imbarco, ho chiesto loro di avviarsi verso casa: era inutile perdere tempo, aspettando, tanto più che al bar c’era tanto ancora da lavorare.
Ci salutiamo e passo il check-point, questa volta senza problemi. Ultimo saluto dalle scale che portano all’imbarco. Ora inizia l’attesa per il vero ritorno.
Telefono a Cicitto, per avvertirlo, che sono già in aeroporto, con l’idea di risentirci al momento dell’imbarco effettivo.
Intanto, mi guardo intorno, tanta varia umanità: PAZZE in bermuda con enormi fiori di peonia; panzoni, che portano in giro il loro ventre, come fosse un bagaglio a mano; vecchie carampane, con la tinta sbiadita dal sole e dall’acqua salata; i soliti manager, che non fanno altro che telefonare, parlando ad alta voce, programmando acquisti e vendite e controlli della commissione controlli, che tanto conoscono un amico che li avverte per tempo; qualche straniero; qualche siciliano che si considera straniero, considerati gli anni che vive in Germania o chissà dove; ragazzine, che sgami subito, che l’hanno fatto giusto in vacanza, perché si sentono “tanto donna”, eppure un po’ in colpa. Insomma tutto il mondo in una sala d’attesa.
Ed in quest’attesa, ci sono anch’io, con il desiderio di tornare a casa per riabbracciare il Mio Cicitto, con scarsa volontà a tornare al lavoro e con il rammarico di non poter stare per più tempo con i miei genitori. Certo, Cicitto ed io siamo famiglia, ma, a volte, mancano le coccole di un piatto cucinato apposta per te.
L’attesa del volo diventa lunga, già oltre mezz’ora di ritardo per l’imbarco ed altra mezz’ora prima del decollo. Volo tranquillo, in cui si vede la differenza tra la nostra compagnia e le altre: le nostre hostes avevano i segni dell’età sul viso e sembravano delle casalinghe prestate al volo, con i bambini lasciati da poco nell’asili del hangar.
Erano già le sei, e ancora volavamo tra le nuvole della Lombardia. Cavoli, pensavo, non abbiamo recuperato niente durante il volo.
Ma non era così! Si sente la voce del comandante che ci avverte, che per motivi tecnici, sulla pista di Linate, non si può atterrare e che ci DIROTTANO su Malpensa.
Mi si stringe lo stomaco. Penso a Cicitto che avrà già raggiunto Linate e non poterlo avvertire.
Comunque non si può far altro.
Una volta atterrati, ci lasciano sull’aereo, perché non hanno i pullman sufficienti a portarci al terminal.
Quando entriamo in aeroporto, alle sette, inizia il balletto per i bagagli: innanzitutto, capire dove arriveranno e poi, quando. Continuo a telefonare a Cicitto ed a mia madre per rassicurarli e, man mano, il tempo passa davanti a quel rullo trasportatore, su cui arrivavano a singhiozzo ed a caso, le valige di tutti i voli che erano stati dirottati. Quando finalmente, dopo due ore, arriva la mia valigia, mi dirigo, con un folto gruppo che era sul mio stesso aereo, verso l’uscita sette, dove avrebbe dovuto esserci un bus, che ci avrebbe accompagnato a Linate. Ma oltre il muro di caldo e di afa, non c’era un bel fico secco.
Alla fine, arriva un’assistente dell’Alitalia, che in qualche modo ci aveva seguito in queste due ore di tormento, e recluta un pullman, che ci imbarca e si parte. Sono ormai le dieci.
Non siamo ancora entrati in autostrada, che chiamano l’autista dicendo che ci sono altri passeggeri da trasportare. Allora, si ritorna in aeroporto, si attende all’uscita due, per poi sapere che hanno deciso di inviare un altro bus.
Sta volta si parte davvero. Un viaggio di un ora, con l’incubo, annunciato, di un incidente lungo il percorso.
Per fortuna, togliendo un po’ di incolonnamento in prossimità di Cormano, per il resto, è andata bene, raggiungendo Linate alle undici.
Cicitto era li, in attesa, che si sbracciava per farsi vedere, in un piazzale gremito di taxi, autobus, macchine strombazzanti, in un calco afoso e pieno di smog, … ma mi sembrava una scena al rallentatore, dove i rumori si attenuano e tutto diventa irreale, fin chè non ci abbracciamo. E tutto intorno riesplode.
Stanchi, stressati, sudati, andiamo a pagare il posteggio e cerchiamo di uscire dalla zona aeroporto. Che casino, per essere così tardi. Macchine per ogni dove, che sembrava di essere a Napoli nell’ora di punta, alcuni stavano litigando furiosamente arrivando quasi alle mani, forse per un incidente …
Via, via, via … Bisogna andare via!
Entriamo, finalmente in tangenziale e, nonostante l’ora, c’era parecchio traffico, ma si scorreva.
Arrivati a Cernusco, ci fermiamo a prendere un Kebbab da asporto ed andiamo a casa.
Un caldo micidiale, sicuramente molto più che in Sicilia. Disfo la valigia, intanto che Cicitto fa una doccia, poi tocca a me rinfrescarmi e ci sediamo a mangiare il nostro kebbab.
Ora, sembrava che la fatica di quest’orribile pomeriggio fosse finita, con l’acqua della doccia.
Finalmente a casa!!!
Ma non ci si può attardare. Sabato mi aspetta il turno di mattina, sperando di trovare un reparto tranquillo.
Ci mettiamo a letto, ma non è facile fare un sonno tranquillo. Continuavo a svegliarmi, addirittura, devo aver urlato nel sonno, m’era parso che qualcuno stesse entrando dalla finestra semiaperta, ma forse era solo un po’ di corrente d’aria.
Insomma l’incubo non era ancora finito.
Mi sveglio definitivamente alle sei, mi preparo e vado al lavoro, dopo aver baciato Cicitto, ancora immerso nel sonno. Esco di casa … Ora davvero, queste vacanze di merda sono finite!!!
Note a margine:
-La seconda notte, che dormivo nel mio lettino da educanda, per poco non mi precipitavo dal letto, non avendo calibrato ancora bene le misure.
-Quando ho passato la giornata con Lucia, tenendo la macchina fotografica in tasca, inavvertitamente, questa si è accesa, portando in fuori l’obbiettivo, creandomi una ”erezione digitale”, che si notava attraverso i pantaloni. Poco male: dava l’impressione di una buona salute sessuale, il che non è molto lontano dalla realtà.
Vi avverto subito che la cosa è lunga.
Mettetevi comodi, prendetevi il tempo che vi occorre e apprestatevi a leggere il resoconto di questa vacanza. Altrimenti organizzatevi a leggerla a puntate.
Inizio …
Quando si dice una vacanza di merda …
Sabato mattina, sveglia alle sette e mezzo. Un po’ assonnato, preparo le ultime cose, faccio la doccia e poi Cicitto mi accompagna in stazione … e già a Cernusco incomincio a sentire premere nell’intestino, ma come fare … Te la tieni!
Giunto a Milano, la solita trafila: dalla Garibaldi, in Metro, fino alla Centrale, quindi attesa che arrivi il bus navetta per Linate … ed anche qui l’intestino che preme. Cerchi di camminare a piccoli passi, la sigaretta che stimola ancora di più la peristalsi. Insomma, una tortura!
Arrivo in aeroporto con notevole anticipo per il check-in: devo aspettare, senza poter lasciare la valigia da nessuna parte, l’intestino che preme, ma andare in bagno vorrebbe dire entrare con valigia, sacca per il computer e contenitore refrigerato per i farmaci. Impossibile!
Cerco un posticino tranquillo per sedermi in punta di sedia a leggere il mio “Montalbano”, ma era una tortura: continuavo a muovermi poggiando ora su un gluteo ora sull’altro per non gravare sullo sfintere ormai sfinito. Per fortuna, avevo scelto una lettura divertente che mi permetteva di distrarre l’attenzione dal problema impellente.
Alle dodici e mezzo mi muovo alla volta del check-in e qui mi fanno delle storie per i farmaci ed il loro contenitore con le mattonelle refrigeranti … per fortuna il santo protettore dei fancazzisti mi ha assistito e piuttosto che recuperare la valigia per farmeli sistemare dentro, si mettono d’accordo tra loro e tutto diventa possibile. C’è da dire che io mi sarei battuto fino allo stremo del mio povero sfintere compresso dall’attacco delle feci impellenti per non caricare i miei farmaci nella stiva con i bagagli: in caso di smarrimento del bagaglio avrei potuto fare a meno delle mutande ma non della mia chemioterapia.
Finalmente Libero!!!
Corriamo in bagno! Anche perché, stranamente era come se il mio intestino avesse avvertito il “via libera” e cominciasse a scalpitare come non mai. Trovato il bagno, poggiate tutte le borse, grave decisione: come sedersi su quel water sconosciuto?! Ma la premura dei miei visceri ha deciso per me e mi siedo e mi libero…
“Sempre sia benedetto l’inventore del gabinetto” AMEN!!!
Ora leggero e sereno mi approssimo al cancello d’imbarco.
Per passare il check-point devo togliere l’orologio, l’anello, la cintura, mettere il cellulare nella borsa, togliere dalla borsa il computer, togliere il giubbotto, tenere in mano il foglio d’imbarco … insomma un lavoro da vero direttore d’eventi, a metà strada tra l’equilibrista e l’archivista.
Ma non basta! Passato il metaldetector comincia a suonare. “Torni in dietro … Si tolga le scarpe … se vuole ci sono dei calzari monouso … ” . Ma chi se ne frega dei calzari! Fatemi passare e finiamola così!
Tante facce, tante famiglie con bambini e, anche ad uno sguardo superficiale, ti accorgi di chi siamo i siciliani e chi no. Non è nemmeno necessario sentirne l’inflessione: basta solo la faccia. I lineamenti tipici dei miei conterranei, l’attaccatura dei capelli, la stessa postura.
Per non parlare della concentrazione di “PAZZE” che ho cominciato a trovare già sul treno del mattino: sembrava una diaspora del 12 Giugno, un avanzo del Pride, disperso tra Brianza e Milanese, alla ricerca di qualche orgoglio sopito.
L’aereo parte con oltre mezz’ora di ritardo.
Io siedo vicino ad un finestrino di coda, accanto a me una coppia leccatissima, che tira fuori da una fusta del free-shop una catasta di giornali di gossip lei di economia lui … Ma che me ne frega: io ho il mio “Montalbano”, che continua a farmi sbellicare dal ridere.
Per leggere, ormai, sono costretto a togliere gli occhiali ed è tutto un su e giù di lenti per non dover tenere il libro ad una distanza siderale, impossibile nell’angusto spazio del sedile di aereo.
Il volo, nonostante fosse Alitalia, si serviva di aeromobili Air-One, le hostes erano piuttosto insignificanti, gentili per contratto e con quel sorriso su faccia rifatta, che non capivi se fosse intenzionale o opera del chirurgo, e dire che erano anche giovani: che necessità avevano di ricostruirsi la faccia?
Volo sufficientemente tranquillo, con il solito piccolo rinfresco a base di salatini e piccolo bicchiere con bibita e, cosa encomiabile, assieme al solito tovagliolino di carta ed alla solita salviettina rinfrescante, hanno consegnato una bustina di gel disinfettante per le mani.
Ormai in dirittura d’arrivo, con l’Etna alla nostra sinistra, magnifica con il suo pennacchio di fumo e le striature bianche che non sai mai se si possa trattare di neve i cenere, inizia la discesa …
Un momento difficile!
Non capisco se fosse per la presenza di “termiche” o di vento o della scarsa esperienza dei piloti o chissaddio, sembra quasi che l’aereo stesse per precipitare: dopo numerosi sobbalzi e scuotimenti laterali, un improvviso abbassamento di quota, seguito da una picchiata, che solo i bambini a bordo hanno vissuto come un gioco tipo montagne russe. Atterraggio altrettanto traballante con frenata brusca inclusa nel prezzo … ma finalmente siamo a terra: il sole splende la temperatura e gradevole e si sente l’odore del mare. Sono in Sicilia!
Appena a terra, chiamo Cicitto per tranquillizzarlo. So già che per lui sarà un periodo difficile. Ma è ormai un anno che non vedo i miei…
Ritiro bagagli lungo, nonostante la nuova struttura aeroportuale. E nell’attesa sembra sempre di essere al 12 Giugno, che quando non li vedi li senti, con le vocine di tre toni più alte di qualsiasi umana possibilità, ora con straordinarie vocali aperte che solo il siciliano riesce ad avere.
Ad accogliermi mia sorella e mio cognato. E ci incamminiamo verso casa.
I paesaggi brulli e bruciati di una terra assetata da mesi di siccità e, quelle poche volte che ha fatto cattivo tempo, l’ha fatto davvero cattivo, con grandinate ed alluvioni per l’impossibilità della terra riarsa di accogliere le non poche gocce.
Chiacchiere nel tragitto, m’informo sui miei nipoti e sulle loro fatiche scolastiche, che, a quanto pare, non sono state poi così faticose, nel senso che non ci hanno messo così tanto impegno, tant’è che Irene è stata rimandata a settembre con tre materie e Salvo, se qualche santo lo protegge, andrà settembre con quattro se non addirittura rischia la bocciatura. L’unica che si salva è Federica, impegnata nell’esame di terza media, ma che sembra non abbia problemi.
A casa, baci e abbracci, sistemo la valigia sul letto della mia camera da “figlio di famiglia” con il “lettino da educanda”, i miei famigerati farmaci in frigorifero e s’incomincia con le frasi convenevoli, per poi passare ai pettegolezzi su tutto il vicinato. Per lo più è un “Bollettino di Guerra” su chi è morto e su chi è malato grave: tumori e infarti sono all’ordine del giorno, non mancano ictus, aneurismi dell’aorta o celebrali (a scelta), qualche sclerosi multipla, tralasciando incidenti di vario genere e morti per cause naturali (vedi vecchiaia).
Il tempo, sebbene caldo non sembri dei miglior e lo faccio notare a mia madre, che mi rassicura che qui non piove da mesi e che non c’è nulla da temere…
Le ultime parole famose!!!
Quella stessa notte è arrivato una sorta di tornado, che ha scosso le persiane, fatto sbattere le porte e ribaltare i vasi di pomodori e di basilico che mio padre ha voluto mettere sul balcone (… “così non devo scendere nell’orto per farmi un’insalata” …). In tutto questo trambusto, mia madre dormiva…
La domenica è giorno di pranzo collettivo, nel senso che, per tradizione ormai consolidata da diciotto anni e più, tutta la famiglia, con consuoceri e collaterali e affini, si riunisce, ora a casa dei miei ora a casa dei consuoceri.
Si prepara il tavolone in cucina. La casa dei miei genitori è strutturata per essere enorme e riusciamo a sederci a tavola comodamente anche in quindici, ma questa volta eravamo solo dodici (si sta più larghi).
Ritrovo Venere e Pesce (ora si chiama così, ma è stato Pulce e anche Cutupiddu), entrambe più in carne e forse meno felici, Maria che cerca al solito di fare da mediatore e i suoceri di mia sorella, che, come anche i miei genitori, sembrano sempre più vecchietti.
Il signor Turi, come al solito inizia il pranzo con le sue solite battute: “Buon magiamento a tutti” (che tradotto dal siculo, vuol augurare buon prurito a tutti, alludendo a pruderie inguino-sessuali) e poi “Mangiate, perché un giorno sarete mangiati” (sottintendendo che solo gli altri saranno mangiati, cioè morti, ma non lui).
Piccole sciocchezze, che se non dicesse, staremmo in attesa, lasciando freddare il pranzo.
Pranzo ottimo, con ogni ben di dio, per almeno venticinque persone, perché mia madre dice: “… e se poi a qualcuno ci venisse il desiderio,’chè dobbiamo fare il mangiare contato?!... “
Si comincia con pasta alla Norma (salsa fresca di pomodori e basilico accompagnata con melanzane fritte e ricotta salata grattugiata al momento), a seguire pollo al forno con patate e pomodorini, cotolette, accompagnate da insalata fresca e melanzane panate, vino, acqua, dolci gentilmente offerti dal signor Turi, caffè e chiacchiere a volontà. Il tutto con il sottofondo delle corse del MotoGP.
Finito il pranzo, ad un orario improbabile del pomeriggio, io mi ritiro in camera dove finisco di leggere il mio libro e decido di provare la mia chiavetta internet della TIM comprata apposta per il viaggio per fare in modo di potermi commettere con Cicitto senza dover passare dai computer degli altri, tra l’altro, prima di partire, facendo una prova di connessione tramite messenger, mi accorgo che il mio PC non riceve i suoni, ma che purtroppo, non si può aggiustare così facilmente, ma bisognerà inviarlo alla “casa”, tanto più che è ancora in garanzia.
Comunque, la connessione con la chiavetta è del tutto impossibile.
Giramento di coglioni!
Cinquantaquattro euro buttati al vento e l’impossibilità di vedere il Mio Cicitto.
Cerco se ci siano delle reti Wireless disponibili, senza password di protezione a cui agganciarmi. Ci sono ma dalla mia camera non si collegano. Provo a girare per casa con il PC in mano come un rabdomante impazzito, anche riprovando con quella schifida chiavetta TIM, che avevo voglia di catapultare giù dal balcone. Quand’ecco il miracolo! Non la TIM ma una rete Tiscali, con una ricezione bassissima, ma che mi permette di connettermi, nell’angolo più remoto del gigantesco soggiorno, tra uccelli impagliati, orologi a pendola fermi da anni, trombe di tritone ed altre conchiglie, la collezione di bambole con il volto e le manine di ceramica ed un’infinità di altre ciarpamerie collezionate in tanti anni di mia assenza dalla casa natia.
Ma chi se frega! L’importante è riuscire a comunicare!
La sera stessa ci mettiamo in contatto e sembrava una situazione paradossale: io che parlavo, ma non sentivo, lui che sentiva ma che parlava a gesti ed era costretto a scrivere ed io che dovevo aspettare di leggere per poter rispondere. Intanto, comunque ci vedevamo, ed era bellissimo!!!
Il lunedì 21, inizio a leggere il nuovo libro (ne ho portati quattro: uno di Camilleri, uno di Busi e due della Litizzetto). Ho preferito quello di Aldo Busi: una sorta di reportage di viaggi e vacanze al limite del paradosso, raccontate sempre con la sua maestria linguistica e il suo acido sarcasmo nei confronti della vita e degli uomini.
Oggi è giornata di “parmigiana di melanzane” e mia madre, come sempre, ne ha preparato per un esercito.
Ottima e abbondante ed io abbondo nelle porzioni, tanto che mi sento un po’ appesantito, ma sottovaluto, pensando che non sono abituato alla cucina robusta, che il mio stomaco sia irritato dai farmaci e che, comunque, basterà un buon protettore gastrico e un po’ di tempo per la digestione e tutto si risolve. Tanto che la sera faccio il bis con la parmigiana rimasta, che scaldata è ancora più buona che a pranzo.
Notte di dolore!
Un dolore viscerale sordo e continuo, con accenni di nausea, sentore di dover andare in bagno, ma non riuscivo a far nulla.
L’indomani ero un po’ uno straccetto, il dolore, prima prevalentemente gastrico ora si era trasferito anche all’addome, e nemmeno i gastroprotettori hanno efficacia. Un grave sospetto: “… e se fosse un’ulcera duodenale, sopita fin ora e scatenata dal cibo e dal vino robusto …”.
Mi tengo mentalmente pronto a chiedere di essere portato al pronto soccorso se il dolore non si attenua.
Intanto, pasta in bianco, con le solite porzioni di mia madre, cioè per almeno tre persone.
Nel pomeriggio cominciano i primi segni di dissenteria. Alleluia!!!
Non certo per la dissenteria che mi torceva i visceri, ma perché, finalmente, ho potuto fare auto-diagnosi di enterocolite infettiva, presumibilmente di natura virale.
Sono un GENIO!
Inutile tediarvi con particolari tecnici sul decorso della malattia. Riso in bianco con porzioni da camionista, Disseten e fermenti lattici.
Ovviamente, niente mare. Ma mi consolava il fatto che il tempo non fosse dei migliori, tanto da dormire con il piumone e di giorno tenere jeans lunghi e camicia a maniche lunghe.
In compenso non ho fatto altro che starmene sdraiato, sotto il mio piumone, al calduccio, tra la lettura ed il dormiveglia, alzandomi solo per andare in bagno o per mangiare la mia mega porzione di riso in bianco.
In verità, quando si apriva qualche spiraglio di cielo terso, era di un azzurro travolgente ed il sole era davvero caldo, c’era anche un’arietta fresca che quasi pareva di essere in primavera, specie la sera.
Cicitto, intanto, mi ragguagliava sul meteo della Brianza e della Bergamasca: ha piovuto anche lì, con relativa abbassamento delle temperature.
Posso proprio dirlo: un periodo di merda!
Poche escursioni, fuori dalla casa avita: una capatina al supermercato per prendere del prosciutto cotto, in previsione di uno svezzamento dal semplice riso in bianco, con relativa burrasca verbale tra mio padre e mia madre su sciocche incomprensioni di tipo logistico.
Diventare vecchi fa diventare più insofferenti. E come sarò io alla loro età?
Sicuramente un gran rompicoglioni con tutte le mie manie da precisetti.
Giovedì pomeriggio, in pieno trip nazional-calcistico, per la partita dell’Italia, non so neanche con quale squadra, con mia sorella e una delle nipoti al seguito andiamo a comprare il regalo per il cinquantesimo anniversario di matrimonio dei miei genitori. In effetti, la data dell’anniversario è già passata da un pezzo, ma si è deciso di festeggiarla, tutti insieme, ora che ci sono pure io.
Dunque, ci troviamo a guidare per strade completamente deserte, al limite dell’irreale, entriamo in un mega negozio in cui tutti gli addetti alle vendite sono davanti ai maxi schermi, tutti sintonizzati sullo stesso canale, dove una Nazionale deludente chiude un’avventura deludente in terra d’Africa. Ed il mio commento è: “Toglietegli gli stipendi!!!”. Se l’unica cosa che interessa loro sono i soldi e la popolarità, colpiamoli su questo. Queste signorine del calcio, che non fanno altro che GIOCARE, sputtanandosi tra una discoteca e l’atra, ma senza curarsi di fare ciò per cui sono profumatamente pagati, vanno mandati tutti a casa, a LAVORARE sul serio, altro che scuse e giustificazioni da tifoso.
Alla fine, a tutti coloro i quali si disperano e si avviliscono per questi nullafacenti, che cosa ne viene in tasca? Spendono paccate di soldi in decoder satellitari per vedere le partite, altri soldi in biglietti e trasferte negli stadi, si ammazzano e si scannano, in nome di un ideale di squadra, che alla fine non è condiviso dagli stessi giocatori, che non vedono l’ora che ci sia qualcuno che li paghi di più per raccattare baracche e burattini e partire per nuovi lidi, verso i quali provare lo stesso disinteresse che provavano prima.
Finita questa invettiva calcistica, torniamo al regalo da comprare e, questa volta, posso decidere anch’io.
Prendiamo un telefonino, giusto giusto per loro: numeri grandi, sportellino richiudibile e facilità d’uso, buona marca e buon prezzo.
Una tantum mi sento contento di aver potuto scegliere.
In serata, sono stato invitato da Maria ad uscire con un gruppo di vecchi amici.
Accetto, anche perché pare che la terapia d’urto abbia sortito effetto e, tranne un lieve risentimento addominale (pare di aver preso un pugno nella pancia) e un po’ di meteorismo, per il resto mi sento abbastanza bene.
Passa a prendermi per le otto e venti ed in macchina c’è Alessandra: uguale a sempre, o quasi. Come su tutti, il tempo passa e lascia il segno, tanto più su chi ha avuto grossi dispiaceri.
Arrivati in piazza, posteggiamo e troviamo Sara, Linda e fidanzato. Aspettiamo solo l’arrivo di Alfia con marito e figlie. C’è fresco e così entriamo da Mario “Alla Mansarda”, anche perché l’idea è di fare una sorpresa ad Alfia.
Eccoli. Abbracci, baci. “Sei sempre la stessa … Come sei cambiata … Ti trovo più magra … Ti trovo più in carne …” Il festival di tutte le frasi fatte che si possono dire quando rincontri un vecchio amico. Quando la verità è che siamo tutti cambiati … E come potremmo non esserlo!
Inclemente il tempo passa sulle nostre vite.
E tanto più tempo passa tra un incontro e l’altro e tanto più ti sembra drastico il cambiamento.
Facciamo battute salaci, scattiamo foto ricordo, cerchiamo nella memoria gli episodi più divertenti, si ordina da bere e da mangiare … e tutto fila liscio, fino a quando non si comincia a tirare fuori i propri dolori e propri malesseri.
Ed è così che scopro che Alfia ha perso il padre e Alessandra la madre ed entrambe ne soffrono ancora.
Ma la serata volge al termine. Domani è Venerdì, ancora una giornata lavorativa.
Quindi saluti, abbracci, promesse di non far passare così tanto tempo prima di rivederci … insomma tutto il campionario.
Riaccompagniamo Alessandra a casa e passiamo a prendere Linda, che si era attardata con il fidanzato, il quale ci fa l’onore di mostrarci il suo nuovo compagno di gioco: un IGUANA. Sì, non sto scherzando, un vero iguana in squame, zampette e coda, ancora un cucciolo che dovrebbe diventare, sempre che sopravviva, di un metro e mezzo di lunghezza.
La domanda sorge spontanea: “Che cacchio te ne fai di un iguana?” … “Non potevi continuare a giocare con il piccolo lucertolino che hai nelle mutande, senza scomodare quella povera bestiolina tropicale?”…
Ma queste sono domande a cui non avremo mai una risposta. Forse, un giorno, Voiager o Quark arriveranno a risolvere il mistero.
Cicitto l’ho sentito al telefono intanto che eravamo in macchina. Ci sentiamo almeno due volte al giorno, grossomodo agli stessi orari di sempre, e , quando i rispettivi PC lo consentono, riusciamo anche a vederci, comunicando con lo strano linguaggio di scrittura e gesti a cui ci siamo dovuti adattare.
Venerdì 25, giorno dedicato a Lucia.
Mi sveglio sufficientemente per tempo, essendomi addormentato tardi (le cinque del mattino, circa).
Mi sistemo ed aspetto che venga a prendermi Lucia.
Negli ultimi mesi, ha vissuto un periodo piuttosto difficile: prima la perdita della madre, che seppure anziana e un po’ rompiscatole, ha comunque lasciato il segno; poi la morte dell’ex marito, che tanti problemi le aveva causato, ma la sofferenza dei figli per la sua dipartita è stata anche la sua; poi, per finire in bellezza, un accidente tra capo e collo, nel vero senso della parola. La investono con la macchina, bloccata con il collare per un bel pezzo; ma non è finita: ecco che arriva un ictus che la blocca a casa per sei mesi, tra ospedale e riabilitazione. Per fortuna, si è risolto abbastanza bene, non lasciando altro strascico che un a lieve balbuzie, specie quando è sotto tensione.
Io ho seguito tutto il susseguirsi degli eventi a distanza, sentendoci per telefono e cercando, per quanto possibile di rincuorarla e rassicurarla sul buon esito della situazione.
Ora la rivedrò, dopo un anno di distanza e tanti eventi di mezzo.
E’ sempre lei, a parte la balbuzie e una sorta di lieve infantilismo, ma lei ci ha sempre giocato a fare la sciocchina per far fare a me il genio.
Baci, abbracci, commozione. Saliamo in macchina e incomincia un balletto: “… Scegli tu … no scegli tu … ma tu dove vuoi andare?... a te dove piacerebbe?...”. Estenuante, tanto che mi spazientisco … ed è in quel momento che mi rendo conto che lei è davvero vulnerabile. Cambio tono.
Alla fine, decidiamo di fermarci a mangiare all’Atlantis, sul lungomare di Fondachello.
Prima di entrare ci scambiamo i regali, poi cerchiamo di capire dove poter mangiare, ma inizia tutta una diatriba con la signora del ristorante, di cui non capivo la ragione, su dove fosse posizionato lo scorso anno il ristorante. Alla fine, si risolve la controversia, o forse rimane solo in sospeso, e ci si fa accomodare a bordo piscina. Ordiniamo, chiacchierando amabilmente, come due vecchie comari in vacanza. Il cibo è buono, il posto è bello, il cielo è limpido e l’aria è calda, c’è anche un bel ragazzo che fa il bagno ed una bagnina che è palesemente lesbica.
Un bel pomeriggio, seduti sotto l’ombrellone, con il riverbero dell’acqua, parlando di tutto un po’.
Alla fine, lei vuole offrirmi il pranzo, ma non vuole essere lei a pagare e mi passa sotto banco una banconota. E’ inutile che provi a ribellarmi a queste bizzarrie: le voglio troppo bene! E cosi chiediamo il conto ed io pago, in sua vece e lei è contenta.
A questo punto andiamo a casa sua, che io avevo visto solo da fuori, prima che lei la comprasse.
In casa ci sono Valeria con una sua amica e Giovanni.
Entrando, devo ammettere, ho avuto un momento di smarrimento: purtroppo me l’aspettavo un po’ più grande, mi aveva detto che fosse piccola, ma non pensavo effettivamente tanto piccola.
Come le ho anche detto, lei si è inventata una casa che non c’è! Non ci sono spazi, non c’è molta luce, tutto è concentrato in pochi metri quadri. Da una scaletta ripida si passa al piano superiore dove c’è la cameretta dei ragazzi e da qui si accede ad un bagno piccolino e tramite un’altra scalettina si arriva al piccolo terrazzo dove si trova una verandina che fa da lavanderia e ripostiglio e, in un angolo del terrazzino, c’era Luna, il loro cane.
L’umido, che un tempo aveva cercato di eliminare era di nuovo riaffiorato, rovinando la carta da parati che ora appassiva sulle pareti. Tutto aveva un non so che di decadente, con una vena creativa, che aveva altresì qualcosa di distonico.
Ma lei è così felice ed orgogliosa della sua casetta, da amare anche la macchia di muffa che lentamente sta degradando l’albero che lei ha dipinto sul muro in uno dei suoi attacchi creativi.
Come disilluderla?!
Ho, comunque, insistito che al più presto chiami un muratore che le sistemi il problema dell’umido, prima che arrivi l’inverno.
I ragazzi escono e noi ci fermiamo a guardare le foto sul computer. Poi si decide per un giro in macchina e, sul percorso, diamo un passaggio a Valeria ed un’altra delle sue amiche (che a me pare decisamente gay).
Essendoci una messa di suffragio per la madre e l’ex marito, Lucia decide che Valeria debba andare, in rappresentanza di tutta la famiglia e lei, carinamente accondiscende. Io, notoriamente anticlericale, non capisco questa necessità di dare soldi al parroco, solo per nominare un nostro defunto in una normale messa di routine: fammi almeno una cerimonia solenne, con tanto di elogio e cori e canti e tutto il cucuzzaro. Ma,ovviamente, la mia idea non è condivisa da una fervente cattolica, qual è Lucia.
Comunque, noi lasciamo Valeria sul sagrato, per assistere alla messa, mentre noi ce ne andiamo in giro per via Gallipoli e poi Corso Italia, fino a raggiungere piazza Carmine, dove ritroviamo Valeria, appena uscita da una messa ultra rapida: padre Diego avrà avuto altro da fare.
Ho fatto diverse foto per tutta la città e con loro e, alla fine, ormai le sette passate, mi riaccompagnano a casa.
Le stringo fortissimamente, tutte e due, e mi sembra quasi di lasciare due bambine spaurite. Valeria è già una donna fatta, alta, fisico atletico, bei lineamenti, aspetto vagamente lesbo, ma in fondo, nonostante i suoi ventuno anni, è rimasta una bimba. Mentre Lucia, che tempo fa aveva acquistato forza e carattere, ora sembrava fragile, vulnerabile, persa in un mondo fantastico in cui tutto è a misura di Lucia, fatto di particolari che non fanno parte di un disegno generale, in cui l’orizzonte è tutto compreso nella finestrella che da su un giardino che non c’è. Lei è la poesia fatta persona, che non segue regole grammaticali, né canoni sintattici, solo lo slancio della fantasia e dell’illusione.
Ci salutiamo sul cancello e mi sfugge un lungo sospiro: commozione, o rimpianto per averla lasciata andare da sola, ancora una volta, ad affrontare le sue paure …
Rientrato a casa, mia madre mi dice che sta sera, per cena ci saranno arancini di riso, fatti da mio cognato.
Attendiamo che arrivino anche Anna, Sebastiano, Irene e Salvo per metterci a tavola per cena. Federica è partita con una sua amica e la famiglia di lei per Vulcano, dopo tanto dibattere se fosse il caso. Ma, alla fine, mia sorella ha ceduto alle pressioni della figlia.
Chiacchiere e discussioni sulla mala sanità e sull’incidente occorso a Sebastiano, nell’impianto del ICD. In effetti, di incidenti ne sono capitati troppi, tanto da mettere in dubbio le leggi della statistica. Ora si ritrova con una sgradevole lesione da ustione da radiazioni sulla schiena, che, probabilmente, guarirà tra molti mesi.
Andati via i ragazzi, mi metto in contatto con Cicitto, tramite messenger, con il nostro articolato sistema di comunicazione, e mi sono anche eccitato, intanto che parlavamo … e gli e ne ho dato la prova via web …
Divertente! Ma lui si è imbarazzato ed abbiamo troncato il piccolo gioco che avrebbe potuto essere.
Tornato in camera, ho dato libero sfogo alla fantasia. Ma non è la stessa cosa. Fare l’Amore è un’altra cosa … certo meglio che niente!
Sabato, altra giornata di relax.
Mi sono attardato nel letto ed il resto della mattinata è volato stando un po’ al computer e ripensavo alla giornata di ieri.
A pranzo, abbiamo mangiato stando in balcone, sebbene ci fosse un po’ d’arietta, si stava bene.
A fine pasto, si è intavolata una discussione sulla difficoltà di comunicazione.
Ho cercato di far notare come la comunicazione tra genitori e figli fosse improntata su dei canoni di scontro, di tensioni non risolte, in cui si usa l’aggressività perché non si ha il coraggio della propria emotività, in cui le affettività vengono castrate e negate per paura di esporsi, per timore di soffrire se non adeguatamente corrisposte. Colpa è anche dei nostri genitori, che non sono mai stati educati a comunicare. Ma questa non può e non deve essere una giustificazione. Se c’è stato un errore nelle generazioni precedenti, perché noi dobbiamo reiterarlo, se sappiamo benissimo che ci sono delle vie alternative, se sappiamo che ci sono dei mezzi che ci permettono di superarlo e risolverlo.
Ogni giustificazione è buona per tirarsi indietro. E’ così facile dare sempre la colpa a qualcun altro o a qualcos’altro, o pensare che in qualche modo tutto si aggiusterà, “se ce l’abbiamo fatta noi cela faranno anche i nostri figli”. Ma il punto è: noi ce l’abbiamo fatta davvero?
Sempre in conflitto con noi stessi, ci ritroviamo a combattere con tutto ciò che ci circonda. Lottiamo con i nostri figli, perché loro non commettano i nostri stessi sbagli, ma quali sono i modelli che stiamo dando?
Abbiamo paura delle proprie paure! Ed il timore di affrontarle ci blocca.
Se vogliamo davvero bene ai nostri figli, facciamo un piccolo sforzo di volontà ed affidiamoci a qualcuno, che ci possa dare le chiavi per aprirci finalmente al mondo.
Chi ha orecchie per sentire lo senta!
Nel pomeriggio è venuto a trovarmi mio cugino, con la bambina e mia zia Tina.
Ci siamo fermati a chiacchierare, intanto che Eleonora, smilza e con lo sguardo acceso, correva per il balcone e mia madre e la sorella si raccontavano gli acciacchi ed i malanni.
Frattempo la temperatura si faceva più fresca ed io che ero in calzoncini e maglietta ed infradito, ho cominciato ad avere freddo.
Mi fa sempre molto piacere ritrovare mio cugino Salvo, con il quale siamo cresciuti da piccoli come fossimo fratelli, abbiamo condiviso tutte le stupidate tipiche dei ragazzini, fino a che siamo un po’ cresciuti e, necessariamente, abbiamo fatto percorsi diversi. Per anni lui è stato un puttaniere incallito, arrivando ad avere anche tre ragazze nello stesso periodo. Poi si è dato una ridimensionata, ha messo la testa a partito: ha preso il diploma che non aveva raggiunto quando era in età da studio,ha trovato un lavoro in università, è diventato padre e, sicuramente, è questa la veste in cui lo vedo meglio: attento, premuroso e responsabile. Bravo Salvo!
Dopo cena, sono passati a trovarmi Tiziana ed suo compagno Giuseppe.
E’ sempre carina, tenera, con quella sua fragilità e modestia che l’hanno sempre contraddistinta.
Abbiamo ricordato i brutti momenti vissuti nei mesi in cui sua mamma si era aggravata ed in fine si è spenta, dopo una lunga agonia, per il tumore che l’ha devastata.
Ora lei sta cercando di ricostruire la sua vita, anche se con difficoltà, che ancora le si frammezzano. Ma, per fortuna non è da sola.
Andati via loro ho sentito il Mio Cicitto al telefono e poi abbiamo ritentato la connessione web, ma la tecnologia ci ha beffati, interrompendosi il collegamento in continuo, tanto che, alla fine abbiamo desistito e ci siamo dati la buona notte.
Ma mica ho preso sonno. Sono rimasto sveglio a girovagare sul computer fin oltre le tre e poi a leggere, anche se con un vago senso di torpore, che mi costringerà, l’indomani, a rileggere diverse pagine.
Ed è di nuovo domenica.
Essendomi addormentato così tardi, mi sono svegliato altrettanto tardi.
Mi sono crogiolato nel letto e poi in bagno per barba e doccia. Bevuto il mio Actimel, assunte le mie pillole, gustato il caffè, mi sono preparato per andare al bar, da mio cognato.
Come ogni domenica, il rito del pranzo collettivo non si può saltare.
Intanto che andiamo in macchina, mi chiama la “mamma adottiva”, per sapere della mia dissenteria e per raccontarmi le ultime cose, in quel di Mondonico.
Entrato al bar, incrocio subito Pesce con sua nipote Lisetta. C’è parecchia gente in un via vai di vassoi di paste e pasticcini, di torte gelato e granite, mangiate alle dodici e mezzo (“… tanto si va a tavola tardi, intanto chiudo un buco …”). Passo in laboratorio dove c’è un gran fermento: torte da decorare, pasticcini da inzuppare nel cioccolato, brioches da infornare, polvere di farina e zucchero a velo. Venere passa più volte chiedendo dei cannoli, al volo, Maria che sollecita le torte … un vero marasma, nel quale si muove con gran disinvoltura Orazio, collaboratore ed amico di Sebastiano, entrato nel laboratori quando era ancora un ragazzo e non ne è uscito più: più che un collaboratore, una vera spalla su cui poggiare.
Sentendomi d’impaccio, stavo sulla porta, ma mia sorella mi recluta a dare una mano con la piccola pasticceria da riporre nei vassoi per il banco espositivo. A me si unisce anche mia madre, molto più esperta, per tutte le ore passate a dare una mano nei momenti di necessità.
Mio nipote Salvo, visti i risultati scolastici, è stato reclutato per il bar e pare tutto compreso nel ruolo.
Verso la una, s’innesca una discussione tra genitori e figlio, a cui non voglio assistere, in cui, come sempre, c’è un problema di fondo di comunicazione: urlata, ognuno dalle proprie posizioni, senza la volontà di fare il ben che minimo movimento di avvicinamento.
Ormai è quasi pronto per andare a tavola, e chiamo Cicitto, altrimenti chissà a che ora mi sarebbe stato possibile, conoscendo i pranzi della domenica. Ovviamente, non mi posso dilungare, né posso esplicitare tutto ciò che stava succedendo. Ma ci risentiremo dopo.
Menù del giorno: panzotti alla domenicana in salsa di noci, arrotolato di pollo arrosto con funghi e piselli, contorno di cuori di carciofi panati e frittelline di patate, vino bianco e rosso, acqua, bibite varie, frutta (anguria, pesche e mele) e, per finire, dolci vari più un semifreddo alle mandorle coperto di cioccolato.
Sento, nuovamente, tornare un senso di rigurgito da indigestione.
La conversazione del pranzo è rimasta incentrata sui mondiali di calcio, di cui conoscete già la mia visione, per poi finire con i problemi di Venere.
Ho cercato di spiegarle che le crisi di ansia e di panico vanno superate sia con l’aiuto farmacologico che con la terapia del linguaggio, che non ci si può appoggiare sempre sugli altri, ma che bisogna trovare la forza ed coraggio di affrontare le proprie paure, guardare in faccia il “mostro” e dire: “Io ti posso sconfiggere, perché lo voglio fare!”. Bisogna prendersi le proprie responsabilità, essere coscienti che siamo stati noi, con il nostro agire o non agire, a lasciare che alcune cose accadessero.
Come dicevo in un altro contesto, è fin troppo facile dare la colpa a tutto ciò che è fuori di noi, quando noi non abbiamo fatto nulla per evitarla o, magari, l’abbiamo assecondata, se non addirittura, voluta.
Parole che sono troppo vere per poter essere ascoltate. Meglio lasciar perdere e cambiare discorso. Far finta di niente … Fino alla prossima crisi, fino al prossimo attacco, quando si tornerà a fare i soliti ricatti morali: “Io sto male e tu mi devi stare vicino!”.
Ma ci sarà il momento in cui, chi ti sta vicino si sarà stufato di correre al tua capezzale di bambino capriccioso e ti lascerà affrontare, da solo, la tua paura. Ed allora, o ne esci vivo o muori definitivamente.
Che discorsi tristi, dopo una tale mangiata pantagruelica.
Meglio andare a fare un pisolino ristoratore e digestivo. Tanto più che, sta sera sono stato invitato ad assistere al saggio di danza di Linda, che si esibirà in una coreografia di danza moderna, al teatro Maugeri di Acireale.
Mi passa a prendere Maria e Irene, verso le otto e ci dirigiamo verso Acireale, dove giriamo un bel pezzo prima di trovare un posteggio. Fiori in mano, ci troviamo davanti al Maugeri, restaurato, dopo decenni di incurie. Bisogna attendere fin quasi alle nove per prendere posto e che inizi lo spettacolo, ma, intanto, lo spettacolo era già lì fuori, dove un nugolo di parenti ed amici, variamente agghindati con l’abito delle migliori occasioni e le acconciature più improbabili, con corbeillies di fiori, manco ad una prima della Scala e che di danza sapevano, forse, quanto un gruppo vacanze al villaggio turistico.
“ … Sua figlia quanti balletti fa? … Beh, dopo tanti sacrifici, loro e nostri … Ha saputo della Maestra? … Ma quanto era tesa mia figlia … “.
Commenti in ogni dove, ed intanto ci raggiunge Venere e Lisetta.
Si abbassano le luci, tacciono le voci e nel buio … incomincia una lagna colossale, suonata dal vivo, da un compositore locale, che è stato definito “Il nuovo Morricone”. Sarà, ma con quella musica e le diapositive di tutte le allieve, nel dietro le quinte, non sembrava un buon inizio.
Il conduttore della serata, che ho saputo in seguito, essere il marito della direttrice della scuola di danza (insomma tutto in famiglia), aveva la stessa pronuncia di Malgioglio. E pensare che io ho sempre detto a Cicitto, che quella di Malgioglio è un’inflessione assolutamente improbabile e che nessuno in Sicilia parla così.
Prima di entrare, avevo chiesto a Maria, ormai esperta di saggi artistici, quanto potesse durare, anche per rendermi conto dell’orario in cui poter sentire Cicitto. “ … In genere, togliendo l’intervallo e i saluti e ringraziamenti finali, (pausa di riflessione e di conteggio) un’ora e mezzo …”.
Le ultime parole famose!
Tre ore e mezzo di balletti di dilettanti allo sbaraglio!
Certo le bambine erano carine, nei loro tutù e nelle loro gaffes ed imperfezioni, tra il tenero ed il clownesco; poi arrivano le ragazzine, ed anche qui non si può pretendere molto da delle allieve; a seguire, il corso avanzato, in un tripudio di “tutto di più”, tra culone svolazzanti e spillungone anoressiche che si atteggiavano a Savina Savignano.
Certo una scuola di danza, specie se a pagamento, deve accettare tutti e, a fine anno deve far esibire tutti, per la gioia dei genitori paganti le rette (“ … Che se la ragazza è contenta … Uno lo fa con piacere … Ma poi i risultati si vedono … Certo che se la deve un impresario … Magari anche qualcosa in televisione … O alla Fiera Campionaria … “), ma chi ha occhi per vedere, dovrebbe evitare di illudere le ragazze ed i genitori.
La prima parte del saggio passa abbastanza velocemente, belle le musiche e con un’ottima acustica, scarse e un po’ noiose le coreografie. E, nel finale, un pistolotto terrificante, tra lo pseudo religioso, tipo sermone, al politically correct di Comunione e Liberazione, durato un’eternità, con il “Morricone dei Poveri”, che continuava a suonare come un invasato ed il “Fratello Segreto di Malgioglio”, che declamava versi incoerenti sull’Africa ed i bambini abbandonati e la necessità di fare adozioni a distanza.
Eravamo al limite del collasso, tra risate d’isteria e la vera volontà a farla finita, tagliandoci le vene o tagliandoci i coglioni ormai completamente triturati.
Finalmente l’intervallo!!!
Sono le dieci e mezzo ed, ancora, sembra che la cosa sia molto lunga.
Telefono a Cicitto, raccontandogli, per quanto possibile, gli eventi salienti ed intanto, ecco che parla “Malgioglio 2”, per richiamare il pubblico, per l’inizio della seconda parte. E giù a ridere, come dei forsennati.
Restiamo intesi, che se lo spettacolo dovesse finire, così come dissero le parole famose di Maria, entro la mezzanotte, ci saremmo risentiti, altrimenti ci rinviavamo all’indomani.
Inizia il secondo tempo …
Solita solfa, anche se, alcuni quadri, tratti da musical, erano abbastanza ben congeniati e, togliendo le necessarie imperfezioni, ritardi, vaghezze, … a tratti, non era male.
Chicca delle chicche, per dare il tempo alle ragazze di cambiarsi, il solito “Morricone”, ha suonato un'altra delle sue composizioni da colonna sonora, ed a completare la scena, uno degli insegnanti ha improvvisato un balletto, davvero ispirato. E, per chi ne avesse il minimo dubbio, vi dico subito che era UNA PAZZISSIMA, UNA VERA DIVA, la Isadora Dancan della Riviera dei Ciclopi.
Applausi a scena aperta!
Ma non cela facevamo più!
Venere, mezza stravaccata sulla poltroncina, che sgranocchiava una barretta energetica, io con la bocca riarsa per la sete, Irene e Lisetta al limite del collasso e Maria che, serafica, si lamentava solo che non era come quello degli anni precedenti.
Arriva il gran finale, i saluti ed i ringraziamenti, la consegna dei fiori e baci e abbracci e lacrime e ….. Basta! Non era umanamente possibile: nonne che mostrano i primi segni di Alzheimer (erano sane all’inizio), madri con il trucco sbavato e cadente, padri con i riporti ormai al vento, vestiti sgualciti e fiori appassiti. Sembrava di essere tornati dalle grandi manovre!
Era, ormai, mezzanotte e un quarto.
Ci muoviamo, verso l’uscita degli artisti, con i pochi ultimi temerari che sono riusciti a sopravvivere. Rimasti, più per ritirare le figlie (nel senso di portarle a casa, anche se il loro segreto intendimento è di ritirare, veramente, le figliolette dalla scuola).
Quando, finalmente, ci troviamo in strada, ormai in macchina, con la fame che divora le viscere, ci si rende conto dell’ora: la una meno un quarto.
Dove trovare un posto ancora aperto?
Idea geniale di mia nipote Irene: andiamo a mangiare il kebbab. Lo fanno buono vicino alla Villa.
E via, verso la Villa Comunale. Ma Stavano chiudendo. Ed anche l’altro, poco distante, era già chiuso ed il proprietario stava innaffiando le piante, fuori dal negozio. Stessa sorte per quello all’inizio di Corso Umberto.
Si decide di andare verso Acicastello, magari qualcosa di aperto ancora c’è. Ed in effetti, troviamo un asporto di kebbab, che chiudeva alla una e quarantacinque: eravamo ancora in tempo.
Mangiamo in macchina, intanto che Maria guidava (no, lei non mangiava), accompagnando a casa, prima Venere e Lisetta, anche perché eravamo ad un passo da casa loro, e poi noi.
Per strada, Linda e Irene si erano abbioccate e Maria ed io parlavamo, ancora dei “problemi di comunicazione”. Ma, arrivati quasi a casa, Irene si rende conto di non avere con sé le chiavi di casa e, conoscendo il sonno pesante della sua famiglia era un po’ in apprensione. Non sarebbe certo rimasta sul portone, sarebbe potuta venire a casa da me o da Maria, ma si risolve il problema con tattici squilli e messaggi.
Finalmente, tutti a casa.
Qui, l’aria è decisamente più fresca che ad Acireale, sia perché la città è sempre più chiusa, sia perché siamo un po’ più in alto. Comunque, fumo l’ultima sigaretta e mi metto a letto, finendo di leggere le ultime pagine del libro di Busi: mi ha lasciato un po’ di amaro in bocca, ha messo in luce un uomo disilluso dalla vita e dai rapporti umani, in cui non trova più alcuna consolazione, né aspettativa, né, tantomeno, speranze; un uomo rassegnato a vivere gli anni che gli restano nella solitudine peggiore: quella senza alcuna volontà di reagire.
E ora di dormire!
Il lunedì mi aspetta la festa di compleanno di Fabiana e, chissà, quali sorprese …
Lunedì 28. Mi sveglio verso le otto, a causa della luce che entra dalla porta-finestra, che la sera prima ho dimenticato sollevata di un pezzo, Ma ho ancora sonno, cerco di girarmi, cerco di riaddormentarmi, ma mi scappa la pipì. Tanto vale che mi alzi e mi liberi la vescica, altrimenti non mi riaddormento più.
E così è. Mi risveglio per le dieci e mezza, solite abluzioni, solite pillole, solito Actimel e caffè e, poi, mi siedo al computer a leggere. Quand’ecco che suona il telefono: è Rosetta che mi chiede se sono in casa. Beh, se ti rispondo dal telefono fisso, forse sono in casa. “… No, perché devo copiare delle canzoni, per la festa di sta sera, sul CD, ma non sono capace. Me lo puoi fare tu se ti porto il PC e tutto il resto? ...”.
Che dire? “Vieni”.
Arriva dopo un pezzo, carica come un mulo, del suo portatile, con relativi CD e chiavetta per connettersi, visto che i brani da copiare erano in un sito web. Accendiamo tutto, mettiamo la chiavetta, … ma questa ha bisogno del PIN, che lei non ricorda e che ha a casa.
“ … No, ma tu per intanto masterizzami questo che mi ha prestato la mia amica, io intanto vado a Linera a prendere i salumi, poi vado a Giarre, lascio la bambina da mia suocera, prendo il PIN e torno … “.
Meglio non discutere. La lascio andare a tutti i suoi impegni inderogabili e tutti in contemporaneità. Io, intanto, mi sistemo le mie cose e poi si vedrà il da farsi.
Era già l’ora di pranzo, ed arriva mio cognato e mia sorella, e si decide per una bellissima misurazione di pressione collettiva. Tutti malatoni, tutti agitati, ma l’unico con la pressione alta risulto io.
Ci mettiamo a tavola, più contenti e soddisfatti, apprestandoci ad assaggiare l’insalata di riso e la parmigiana di melanzane, quand’ecco che suona il citofono: è Rosetta.
“ … Ma, non me lo puoi fare tu, da solo, questo lavoro, che io devo andare a dare da mangiare alla bambina e poi devo trovare dello spago per arrosti, che devo appendere i festoni, che devo … “.
“Senti Rosetta, io ti voglio bene e sono tuo padrino di cresima e tuo testimone di nozze, ma come mi puoi chiedere di mettere dei brani, alternati quelli per bambini a quelli per i grandi, se non so neanche quali brani vuoi? Tu, ora, ti siedi un attimo e mi dici cosa vuoi ed in che ordine e, poi, te ne poi andare ad impiccarti con lo spago per gli arrosti con tutti i festoni ed i CD!!!”.
Alla fine, ne veniamo ad una. Lei va a casa, a fare tutto quello che ancora le resta da fare: cioè dire rivoluzionare il mondo, prima della festa per sua figlia; ed io posso, finalmente assaggiare la mia deliziosa insalata di riso.
Dopo pranzo, riesco in brevissimo a fare i CD che aveva bisogno, le porterò il PC e tutto il cucuzzaro, questa sera, quando andrò a casa sua, con l’incarico di portare anche la torta, che ha fatto Sebastiano.
E, per qualche ora, non voglio sentire e vedere nessuno!
Ho iniziato a leggere uno dei libri della Litizzetto, che adoro sia come intrattenitrice televisiva sia come scrittrice. Vero è che i suoi libri altro non sono che la trasposizione dei suoi monologhi, ma leggendoli, io me la rivedo, seduta sulla scrivania di Fazio, sentendone la voce, con la sua inflessione tipicamente piemontese.
Verso le sette, mi sono preparato, ho chiesto la macchina a mio padre (ogni volta mi sento come un diciottenne, che deve chiedere le chiavi di casa). Purtroppo, io sono già un guidatore svogliato, in più non conosco la macchina e, ancora di più, è la macchina di mio padre, che se anche le facessi un minuscolo graffio, sarebbe una vera tragedia.
Vado a prendere Irene e la torta, con relative decorazioni, ma mi rendo conto d’aver dimenticato a casa il regalo per Fabiana. Ripassiamo da casa e già mio padre va in allarme: “Cosa è successo?”.
Arriviamo a Giarre per le otto ed, a casa di Rosetta è già il caos. Ma non per gli ospiti, che ancora mancano, bensì per la bambina già sull’orlo dell’isteria.
Erano presenti le due suocere con relativi consorti, una nostra cugina con figlio di tre anni, e la madrina di “cuppuluni” (E’ antica tradizione in Sicilia che, oltre alla madrina ufficiale, ci sia una madrina affettiva, che, al momento del battesimo, lavi il “cuppuluni”, cioè dire, la cuffietta. Oggi, che non esiste più l’uso delle cuffiette per i neonati, tale madrina, lava il fazzolettino ricamato con cui viene asciugato il capino del bimbo, dopo essere stato asperso dal parroco con l’acqua santa. Ma io sono convinto, che questa pratica serva soltanto per riuscire ad avere solo un grosso regalo in più.)
Andiamo in terrazza, dove è stato posizionato un artistico gazebo in ferro battuto, buono per il giardino di una villa, con tanto di teli e drappi; ci sono festoni e palloncini, in un tripudio di Hello Chitty; tavoli e sedie ovunque ed uno stereo, che suona canzoncine per bambini, con tutto il repertorio. Solo che, mi rendo conto che alla bambina, di tutto ciò, non gli e ne importasse nulla, se non scaraventare a terra bicchierini e tovagliolini colorati, rigorosamente nei toni del rosa, il tutto in un attacco di capricci a go-go.
Quanto avrei voluto Tata Lucia, ma forse sarebbe stato meglio che ci fossero state tutte le tate di tutte le edizioni di “Operazione Tata”, anche perché, poco dopo, si è aggiunta Eleonora, completando così il trio infernale alla Dario Argento.
Altri ospiti, c’erano, ovviamente, mio cugino Salvo e la moglie, la coppia di testimoni di nozze di Rosetta, con i quali sono molto amici, un’altra coppia di cui lui è collega di lavoro di Santo (il marito di Rosetta), e, in ultimo, è arrivato il fratello di Santo, che ha preparato alcune delle cose che abbiamo mangiato.
Il menù era composto da quantità spropositate di salatini di ogni genere, a seguire, panini al latte con farciture varie, pizzette, arancini di riso e “cartocciate”, bibite varie, in ultimo la torta gelato e la macedonia.
Per tutta la sera, mi sono diviso tra mio cugino Salvo e Saro, il testimone di nozze, con mia zia Tina, che mi tampinava raccontandomi dei suoi acciacchi.
La povera Irene è stata reclutata come guardiana delle piccole belve e, comprensibilmente, non ne poteva più.
Il clou è stato il taglio della torta, con relative foto, che pareva di essere ad un matrimonio, in cui tutti gli invitati erano chiamati a fare la foto con la festeggiata, che, bellamente, infilava le mani nella panna, infischiandosene di tutti, con l’unico pensiero per i regali.
Alle undici, chiama Cicitto e, non so per quale arcano motivo, lui non riusciva a sentire nulla, mentre io sentivo benissimo, avendo perfettamente campo. Più e più tentativi con Cicitto spazientito e depresso, che inveiva contro tutta la tecnologia del mondo. Finalmente, in un angolo freddo e ventoso del terrazzo, si riesce a parlare, anche se, ovviamente, non in maniera esplicita e tranquilla, così come è nostro solito.
Lui si sente molto stanco, e ne ha ben donde, ed anch’io sono stanco di stare lontano da lui: mi manca terribilmente.
Intanto che parlo con Cicitto, mi arriva un messaggio da parte di Irene, che mi chiede se non fosse ora di accomiatarci (non erano queste le parole). In effetti abbiamo già preso fin troppo freddo, abbiamo sentito fin troppi strepiti di bambini viziati ed era anche quasi mezzanotte.
Saluti, ringraziamenti, riceviamo la bomboniera (anche) e ci avviamo verso casa.
E’ stata una serata sbagliata. Una festa per adulti mal assortiti, camuffata da festa per bambini, con tutti i colori e gli addobbi di un’infanzia mai finita. Un mito infantile di riunione di “amichetti” ormai cresciuti, che poco hanno in comune e che nulla hanno da raccontarsi. Tutto molto triste e vagamente decadente, di una fanciullezza che non si vuol lasciare andar via.
Mi sento un po’ stanco. Stanco di vedere coppie, che non sanno gestire la propria rabbia, neanche quando hanno ospiti a casa, che non sanno gestire i malumori dei propri figli, imponendoti di assistere alle loro discussioni, con enorme imbarazzo. Mi chiedo perché si riuniscano tante persone, se poi non segui i tuoi ospiti. A chi serve questa vetrina, piena di tante apparenze, se poi fai vedere che dietro c’è solo un palloncino sgonfio, che penzola tragico.
Sono davvero stanco!
Martedì 29, San Pietro e Paolo. Ed il primo pensiero è per Cicitto: gli mando un messaggio sul cell.
A metà mattinata, passa una signora per una “consulenza”. Dopo pranzo, un’altra. Ed il resto del pomeriggio tra sonnecchiamenti e lettura.
Ci prepariamo, per la serata di festeggiamento del cinquantesimo anniversario dei miei genitori.
Già, mio padre inizia ad entrare in un fermento, quasi isterico sulla scelta del ristorante, perché, a suo dire, non c’è posto per posteggiare, poi, con un giro di telefonate è tutto risolto: mia sorella ed i ragazzi vanno con la loro auto, partendo un po’ prima, per sistemare i fiori e portare la torta; i miei genitori andranno in macchina con i consuoceri; Maria, con Linda e Pietro, daranno un passaggio a me; dopo ci raggiungeranno Venere e Pesce.
Il ristorante è a Giarre, in cui già l’anno scorso eravamo stati con mia sorella: davvero carino, con una splendida terrazza fiorita, ricca di oggetti antichi, raccolti in anni di giri per rigattieri, inoltre, magnifiche piastrelle di maiolica di De Simone Padre, e foto antiche delle storiche corse della Targa Florio, che si correvano tra i tornanti della Timpa di Acireale.
Presi i posti, scattate diverse foto, ordinato. Ma la partita del mondiale incombeva da un maxi schermo ed il signor Turi, con Pesce, erano li, impietriti, tanto da dover portare loro le bruschette, davanti alla TV.
Il solito bailamme, quando si è in tanti, del “chi ha ordinato cosa”. Ma io mi chiedo: “Possibile che non ti ricordi cosa hai scelto dieci minuti fa, mentre ti ricordi benissimo cosa ha ordinato il tuo vicino di posto?” .
Ma tutti, alla fine, gustano la propria pizza (tranne Irene e Pesce, che hanno preso della carne), con una magnifica birra, che il proprietario del ristorante, serve in boccali che sono stati tenuti nel congelatore e che, al contatto con la birra, la cristallizza in deliziosi cristalli di birra ghiacciata che salgono in superficie con la schiuma.
Io, ovviamente, non potevo che chiedere la pizza “alla Norma”, rigorosamente, con melanzane fritte e ricotta salata: ottima!
Arrivati al momento dei regali, oltre il cellulare, comprato da noi figli, è arrivata anche un’enorme scatola, e li ho capito subito: la macchina per il caffè, che era stata lanciata come idea iniziale, è ricacciata fuori, come regalo di tutto il resto del gruppo (dovrà trovare il posto dove metterla … ).
Altre foto, altro giro.
Ecco la torta. Una strepitosa creazione di mio cognato, fantastica alla vista, quanto al palato, ricchissima di oro, sotto forma di rose dorate, anelli e cifre. Ovviamente, altro giro di foto di rito, con tutti. Ed in questo frangente, chiama Cicitto. Mancava proprio lui, a buon diritto avrebbe dovuto esserci, il mio compagno da sette anni, che condivide con me tutto, mancava in questo momento. Mancava a me!!! Ovvio, che gli altri, non conoscendolo neanche, non ne sentissero la mancanza, ma io sì!
Anche lui sta accusando il colpo della nostra lontananza, ma, purtroppo, la Sicilia per lui è off-limit , chissà ancora per quanto.
Saluti, baci, abbracci, e ci avviamo verso casa.
Mi sento stanco, fumo l’ultima sigaretta, leggo svogliatamente qualche pagina della Litizzetto e spengo la luce. Un sonno senza sogni, o meglio, nessun sogno che io ricordi.
La mattina del mercoledì vola velocemente: mi alzo verso le nove e mezzo, mi preparo e vado, con mio padre, in paese, per fare delle fotocopie; poi, passo da mia sorella, per chiedere i soliti dolcini alla mandorla, che tanto piacciono ai miei amici lombardi; tornato a casa, passa Rosetta con la bambina, sempre in continuo movimento incontrollabile ed incontrollato; per arrivare al pranzo.
A tavola, eravamo pochi, perché mancavano i miei nipoti (chi al mare, chi a ripetizione). Mia madre si è sbizzarrita in piatti a base di funghi (i porcini, che loro hanno raccolto sull’Etna quest’inverno): pasta con asparagi selvatici e porcini, petti di pollo al forno con patate e porcini, frittata con porcini. Mancava solo un’insalata con porcini, il melone con porcini e il caffè con porcini, ed avremmo finito in bellezza il pasto, con i porcini che ci uscivano da tutte le parti.
Pomeriggio, tra inedia e tedio e … non so neanche io cosa. Non avevo voglia di niente, neanche di dormire il mio solito pisolo pomeridiano. Ho finito col leggere il racconto che mi ha scritto Lucia, finendolo. Certo, è molto da limare e depurare, ma per una collana tipo Armony, potrebbe andar bene.
Mi sono, poi attardato in balcone a chiacchierare con mia madre. Ho cincischiato con il telefonino nuovo, che gli abbiamo regalato, impostando le funzioni che a loro potevano tornare utili. Come dico sempre: “Mia madre potrebbe litigare anche con il tostapane”, figuratevi con un cellulare!
Mio padre ha apparecchiato per la cena, in balcone e, sul tardi, arrivano mia sorella, Sebastiano, Irene e Salvo, mancava Federica, che era ad una riunione di fine anno, con le compagne di classe.
Già si sentiva aria di tempesta, da quando hanno chiuso gli sportelli dalla macchina. Salvo rampognava, perché voleva uscire un i suoi soliti amici, i suoi genitori che non vogliono che stia tutte le sere in giro, non si sa bene dove e con chi. Lui che rivendica il “DIRITTO” ad uscire, perché lavora alcune ore del mattino al bar, studia ai corsi di recupero, sta facendo il corso di sub e si sta preparando per la patente.
Attività validissime, se non fosse che, per dare una mano al bar viene pagato (seppur poco), i corsi di recupero li deve fare, obbligato dalla scuola, perché è stato rimandato in quattro materie, il corso di sub è una specie di regalo e non un’imposizione e la patente è una cosa utile.
Ma non se n’è potuto venire a una. In balcone tirava un’aria fresca, oserei dire gelida, tanto che ho indossato jeans lunghi e camicia a pesante, la cena è stata un tormento e lui si è rifiutato di mangiare. Ma non è uscito.
Mio cognato aveva portato il suo PC e, dopo cena, abbiamo visto le foto degli ultimi mesi ed io ne ho scaricate un po’ sulla mia chiavetta, anche per farle vedere a Cicitto, che ha chiamato per le undici e non vede l’ora che ritorni a casa.
Ormai manca poco. Venerdì 2, si riprenderà l’aereo verso la Brianza.
Ero stranamente stanco e già, verso le undici e quaranta ero a letto, ma non riuscivo ad addormentarmi. Mi sono rigirato per parecchio tempo, insofferente alle coperte, al caldo, alle zanzare. Sembrava che tutto fosse storto. Ma il problema è che, ormai, questo periodo di ferie incomincia a starmi stretto, ho bisogno di tornare alla mia routine.
Finalmente calo nel sonno.
Il giovedì, mi sveglio abbastanza presto, verso le otto ed un quarto, anche per il rumore che fanno gli addetti alla nettezza urbana ed il vociare dei venditori ambulanti. Mi alzo, con le mie articolazioni irrigidite, vado in bagno, prendo le mie pillole e torno a letto, cercando di riprendere sonno. Ma niente. Tanto vale alzarsi, definitivamente. Mi rado, faccio la doccia, faccio un giro sul computer, in attesa che arrivino Anna e Sebastiano, per andare a Catania, per il controllo settimanale della lesione da radiazioni, con cui sta ancora combattendo.
Ci avviamo verso Catania, per le undici passate. Il solito traffico cittadino, a cui, penso che non riuscirei mai ad abituarmi. Arriviamo in via Plebiscito al vecchio Umberto I°, un ospedale storico, che pur essendo stato riarrangiato (perché dire “ristrutturato” è dire troppo), evidenzia i segni del tempo: una struttura a padiglioni, poco funzionali.
Arrivati all’ambulatorio di dermatologia, attendiamo, vedendo passare ogni sorta di medico, paramedico e affine. Un paio di dottoresse sembrava che fossero alla serata inaugurale de festival del cinema, tanto erano tirate a spolvero. Alcuni dottori sembrava che andassero a zonzo, per riempire il tempo, prima dell’ora di pranzo. E tutti avevano l’aria svogliata di chi si chiede: “Perché proprio a me? … Me ne stavo così bene a casa mia! ... Quasi quasi ci torno …”.
Per fortuna, il medico che ha in cura Sebastiano, mi ha dato una buona impressione, nonostante il contesto in cui opera.
Gli ha fatto un curetage chirurgico, asportando, per quanto possibile, la fibrina che si è formata nella lesione. Lo rivaluterà tra due settimane.
Torniamo verso casa, e dovendo ripassare per il centro di Catania, si evidenzia “L’Antica Arte dello Strombazzamento”, cioè, quella maestria ad usare, in modo assolutamente inconsulto, il clacson.
Ovunque ti girassi suonavano, per qualsiasi motivo e senza nemmeno averne uno: così per non perdere l’allenamento. Devi girare a destra? Strombazzi! Devi cambiare corsia? Strombazzi! Devi salutare qualcuno, anche se non sei sicuro che sia la persona che conosci? Strombazzi!
Insomma si strombazza sempre, in un concerto, pari a quello che si sente negli stadi sudafricani.
Ma pensate più a trombare a casa e non a strombazzare per strada!!!
Arrivati a casa, tutti avevano già pranzato. Quindi, ci siamo sistemati sul balcone a gustare una deliziosa lasagna.
Ma la tranquillità è una vaga speranza. Salvo stava in soggiorno, in semi oscurità, dicendo di studiare Diritto; Federica era seduta in balcone, mentre Irene le agghindava i capelli a mo’ di boccoli … Quando ecco la fatidica domanda: “Mamma, mi accompagni al cinema con le mie compagne?”.
E da qui, si sono aperte le solite cataratte della guerra verbale, dei ricatti psicologici, delle minacce neanche minimamente velate. Orribile!
Non ne posso proprio più! Non vedo l’ora di tornare alla pace della mia vita quotidiana, dove non devo essere armato e corazzato verso tutti e tutto, dove non devo scontrarmi ad ogni piè sospinto, dove non devo scendere a mille compromessi, proprio mentre sono a tavola.
Mi chiedo se non fosse stato meglio se, Adamo ed Eva, anziché una foglia di fico, non avessero usato una pala di fico d’india, cosi da risparmiarci da progenie tanto difficili da gestire.
Alla fine, non so con quale tregua sia finita la battaglia, perché me ne sono andato, veramente irritato.
Mia madre ha deciso che, come ultima sera di permanenza in Sicilia, avrei dovuto mangiare il “Pane Condito”: pane fatto in casa e, appena sfornato, condito con pomodorini, olive, prezzemolo, olio, sale e pepe e poi, ad libidum, si può aggiungere formaggio, prosciutto e quant’altro t’ispira il cuore e lo stomaco. Ma io preferisco la versione classica, calda e fragrante e senza troppe aggiunte.
Nel pomeriggio, ho riposato un pochino. Ero stranamente stanco. Forse, non è poi così strano, viste le continue tensioni che tocca subire, dagli scontri generazionali.
Mia madre con la signora Enna (ormai eletta Zia Enna, ad onorem), impastano il pane e lo cuociono nel forno a legna, come si faceva una volta.
E’ stato bellissimo, assistere all’infornata, le ciambelle lievitate, che vengono prese con la delicatezza con cui si solleva un bambino, ed adagiate sulla pala da forno, per sistemarle sotto la cupola di mattoni arroventati dal fuoco. Prima di chiudere la bocca del forno, si versa un po’ di farina su un po’ di brace rimasta all’ingresso del forno e si recita una preghiera: “Santa Rusalia, janca e russa comu a Vossia”, invocando l’aiuto di Santa Rosalia, affinchè il pane diventi ben cotto e dorato (bianco e rosso come Voi).E’ questo un rito che si rifà a ricordi ancestrali, in cui s’invocava La Grande Madre, o Demetra, o le varie divinità della Fertilità, per avere abbondanza e prosperità.
Intanto si leva un profumo di pane appena cotto, che inebria.
A cottura ultimata, il pane viene condito e, possibilmente, mangiato caldo.
Per la serata, abbiamo sistemato in balcone, ci sarebbero stati tutti i soliti del pranzo della domenica, ma poi, per un contrattempo mancavano i suoceri di Anna.
Inutile dire, che ci sia stata un’altra discussione con Salvo, sull’uscita serale e sui suoi amici, ma come sempre, tutto si è risolto in una bolla di sapone, scoppiata con un urlo.
Passato questo momento, ricomincia Federica, che un po’ scherzando un po’ provocando, dice di voler provare a fumare. “Bene” gli dico, “Vai a prendere il pacchetto e fumane almeno venti”. Lei, con fare di sfida, va e ne prende una, ma non l’accende ed io la sprono a farlo: deve avere il coraggio delle proprie azioni.
“Le scelte della vita non sono come provare un vestito, che se non ti piace lo cambi. Una volta che hai provato è per sempre! Non puoi più tornare indietro, l’esperienza è stata fatta e niente ti restituirà l’integrità che avevi prima. Non si fanno mai scelte per sfida, per provare d’avere coraggio, ma perché davvero si vogliono fare e sapendo a cosa si va in contro. Ed ora se vuoi fare un tiro, sappi che poi non potrai dire ho provato, ma ho fumato.” Testuali parole.
La serata è finita con i regali: mia sorella mi ha regalato un accappatoio, più un set di lenzuola con asciugamani (non so come farò a mettere tutto in valigia, visto che ci sono i dolci, i regali per La Mamma ed altro ancora), Rosetta è passata a salutarmi, con Santo e Fabiana e mi hanno regalato un telo da mare ed una maglietta.
Andando a letto, mi sento un po’ stanco. L’indomani sarà una giornata pesante.
Venerdì 2 luglio. Mi sveglio per le nove, incomincio a preparare la valigia, anche per capire cosa riesco a farci entrare. Come previsto alcune cose non possono fisicamente entrare. Più avanti le recupererò.
Faccio la doccia e vado al Bar, per mangiare la prima e unica granita della stagione: panna sul fondo della coppa, granita alla fragola e ancora panna sopra, accompagnata con una fragrante brioche ancora calda. Una vera goduria!
Quelle che in Sicilia si chiamano granite, non hanno nulla a che vedere con quelle delle altre regioni, dove s’intende, invece, la granatina, Qui ricordo più un sorbetto, qualcosa di cremoso, che non è il gelato: è granita!
Ho incontrato anche Nino, che non è cambiato di una virgola, se non un po’ di pancetta e qualche ruga in più.
Ho salutato la signora Graziella e il signor Turi, Maria e Orazio e sono tornato a casa a sistemare le ultime cose. Siamo davvero agli sgoccioli.
Mia madre avrebbe voluto cucina pasta al pesto di basilico fresco, ma dopo una granita con panna e brioche, non credo che riuscirei a mandar giù molto. Forse un toast.
Mia madre ha messo in tavola, come se fosse un giorno qualunque, cioè dire un pranzo in piena regola, con pasta al pesto, cotolette, insalata e toast.
Come al solito, la discussione dell’ora di mangiare, con Irene che chiede di uscire ed il padre che si lamenta che le figlie non hanno messo in ordine, lei che recrimina che i fratelli sono usciti anche se non hanno fatto nulla in casa … Tutto estremamente noioso! Ma per fortuna è l’ultima!
Alla fine, ho deciso di portare un bagaglio a mano, nonostante la sacca del computer, e così sono riuscito a portar via tutto.
Ci abbracciamo sul cancello di casa: è sempre un momento difficile, specie per mia madre, sul punto di piangere. Ci rivedremo solo tra un anno … ed è lunga. Ma non posso fare diversamente, spostarmi, con pochi giorni di ferie, è sempre problematico.
Comunque, siamo in macchina, mia sorella alla guida, alla volta dell’aeroporto. Intanto che loro posteggiavano, ho fatto il check-in, poi, visto che ancora ci sarebbe voluto parecchio, prima dell’imbarco, ho chiesto loro di avviarsi verso casa: era inutile perdere tempo, aspettando, tanto più che al bar c’era tanto ancora da lavorare.
Ci salutiamo e passo il check-point, questa volta senza problemi. Ultimo saluto dalle scale che portano all’imbarco. Ora inizia l’attesa per il vero ritorno.
Telefono a Cicitto, per avvertirlo, che sono già in aeroporto, con l’idea di risentirci al momento dell’imbarco effettivo.
Intanto, mi guardo intorno, tanta varia umanità: PAZZE in bermuda con enormi fiori di peonia; panzoni, che portano in giro il loro ventre, come fosse un bagaglio a mano; vecchie carampane, con la tinta sbiadita dal sole e dall’acqua salata; i soliti manager, che non fanno altro che telefonare, parlando ad alta voce, programmando acquisti e vendite e controlli della commissione controlli, che tanto conoscono un amico che li avverte per tempo; qualche straniero; qualche siciliano che si considera straniero, considerati gli anni che vive in Germania o chissà dove; ragazzine, che sgami subito, che l’hanno fatto giusto in vacanza, perché si sentono “tanto donna”, eppure un po’ in colpa. Insomma tutto il mondo in una sala d’attesa.
Ed in quest’attesa, ci sono anch’io, con il desiderio di tornare a casa per riabbracciare il Mio Cicitto, con scarsa volontà a tornare al lavoro e con il rammarico di non poter stare per più tempo con i miei genitori. Certo, Cicitto ed io siamo famiglia, ma, a volte, mancano le coccole di un piatto cucinato apposta per te.
L’attesa del volo diventa lunga, già oltre mezz’ora di ritardo per l’imbarco ed altra mezz’ora prima del decollo. Volo tranquillo, in cui si vede la differenza tra la nostra compagnia e le altre: le nostre hostes avevano i segni dell’età sul viso e sembravano delle casalinghe prestate al volo, con i bambini lasciati da poco nell’asili del hangar.
Erano già le sei, e ancora volavamo tra le nuvole della Lombardia. Cavoli, pensavo, non abbiamo recuperato niente durante il volo.
Ma non era così! Si sente la voce del comandante che ci avverte, che per motivi tecnici, sulla pista di Linate, non si può atterrare e che ci DIROTTANO su Malpensa.
Mi si stringe lo stomaco. Penso a Cicitto che avrà già raggiunto Linate e non poterlo avvertire.
Comunque non si può far altro.
Una volta atterrati, ci lasciano sull’aereo, perché non hanno i pullman sufficienti a portarci al terminal.
Quando entriamo in aeroporto, alle sette, inizia il balletto per i bagagli: innanzitutto, capire dove arriveranno e poi, quando. Continuo a telefonare a Cicitto ed a mia madre per rassicurarli e, man mano, il tempo passa davanti a quel rullo trasportatore, su cui arrivavano a singhiozzo ed a caso, le valige di tutti i voli che erano stati dirottati. Quando finalmente, dopo due ore, arriva la mia valigia, mi dirigo, con un folto gruppo che era sul mio stesso aereo, verso l’uscita sette, dove avrebbe dovuto esserci un bus, che ci avrebbe accompagnato a Linate. Ma oltre il muro di caldo e di afa, non c’era un bel fico secco.
Alla fine, arriva un’assistente dell’Alitalia, che in qualche modo ci aveva seguito in queste due ore di tormento, e recluta un pullman, che ci imbarca e si parte. Sono ormai le dieci.
Non siamo ancora entrati in autostrada, che chiamano l’autista dicendo che ci sono altri passeggeri da trasportare. Allora, si ritorna in aeroporto, si attende all’uscita due, per poi sapere che hanno deciso di inviare un altro bus.
Sta volta si parte davvero. Un viaggio di un ora, con l’incubo, annunciato, di un incidente lungo il percorso.
Per fortuna, togliendo un po’ di incolonnamento in prossimità di Cormano, per il resto, è andata bene, raggiungendo Linate alle undici.
Cicitto era li, in attesa, che si sbracciava per farsi vedere, in un piazzale gremito di taxi, autobus, macchine strombazzanti, in un calco afoso e pieno di smog, … ma mi sembrava una scena al rallentatore, dove i rumori si attenuano e tutto diventa irreale, fin chè non ci abbracciamo. E tutto intorno riesplode.
Stanchi, stressati, sudati, andiamo a pagare il posteggio e cerchiamo di uscire dalla zona aeroporto. Che casino, per essere così tardi. Macchine per ogni dove, che sembrava di essere a Napoli nell’ora di punta, alcuni stavano litigando furiosamente arrivando quasi alle mani, forse per un incidente …
Via, via, via … Bisogna andare via!
Entriamo, finalmente in tangenziale e, nonostante l’ora, c’era parecchio traffico, ma si scorreva.
Arrivati a Cernusco, ci fermiamo a prendere un Kebbab da asporto ed andiamo a casa.
Un caldo micidiale, sicuramente molto più che in Sicilia. Disfo la valigia, intanto che Cicitto fa una doccia, poi tocca a me rinfrescarmi e ci sediamo a mangiare il nostro kebbab.
Ora, sembrava che la fatica di quest’orribile pomeriggio fosse finita, con l’acqua della doccia.
Finalmente a casa!!!
Ma non ci si può attardare. Sabato mi aspetta il turno di mattina, sperando di trovare un reparto tranquillo.
Ci mettiamo a letto, ma non è facile fare un sonno tranquillo. Continuavo a svegliarmi, addirittura, devo aver urlato nel sonno, m’era parso che qualcuno stesse entrando dalla finestra semiaperta, ma forse era solo un po’ di corrente d’aria.
Insomma l’incubo non era ancora finito.
Mi sveglio definitivamente alle sei, mi preparo e vado al lavoro, dopo aver baciato Cicitto, ancora immerso nel sonno. Esco di casa … Ora davvero, queste vacanze di merda sono finite!!!
Note a margine:
-La seconda notte, che dormivo nel mio lettino da educanda, per poco non mi precipitavo dal letto, non avendo calibrato ancora bene le misure.
-Quando ho passato la giornata con Lucia, tenendo la macchina fotografica in tasca, inavvertitamente, questa si è accesa, portando in fuori l’obbiettivo, creandomi una ”erezione digitale”, che si notava attraverso i pantaloni. Poco male: dava l’impressione di una buona salute sessuale, il che non è molto lontano dalla realtà.
mercoledì, maggio 12, 2010
Tutto ha un senso...
Che starno scrivere di giorno …
Di solito mi ritrovo a notte fonda a lasciare il segno delle mie emozioni …
Oggi mi sono svegliato sufficientemente presto … sono andato a fare una doccia solare e poi … guardano il calendario mi accorgo che l’appuntamento per le radiografie non va bene in base ai turni. Arrivo all’ambulatorio per disdire, ma poi mi accorgo che i turni sono giusti e che l’appuntamento è giusto … insomma un casino sotto una pioggia scrosciante …
Torno a casa, mangio qualcosa e telefono al Mio Cicitto …
Poi che fare … comincio a girare tra i miei film in DVD e trovo “ Latter days ”, un film in versione originale con sottotitoli che parla di una bellissima storia d’amore gay in una Los Angeles, a tratti superficiale, tra un ragazzo che vive una vita intensa ed un giovane missionario mormone.
Una storia sconvolgente su come si possa cambiare. “… Quando ero un ragazzino davo un’occhiata alla pagina dei giochi … ed reo affascinato da quell’insieme di puntini. Qualche volta penso che la vita sia come quei puntini. Mi piace pensare che, dalla prospettiva del Signore, la Vita, Tutto, persino il suo episodio, abbia un senso. Non solo stupidi puntini, invece noi siamo … siamo tutti collegati … ed è bellissimo, e divertente, e giusto. Da vicino non possiamo aspettarci che abbia un senso, …”
Ed ho ripensato alla mia esperienza, al mio rapporto con Cicitto …
Io che arrivo dalla Sicilia dopo una telefonata a tarda sera, che non sono neanche sicuro di rimanere, che giro per vari ospedali prima di fermarmi, che mi ritrovo suo padre nel mio reparto, che lo ritrovo nella discoteca in cui vado con delle colleghe … e mi innamoro … tutta una serie di puntini che si sono uniti per formare la nostra vita, la nostra storia d’Amore.
Nulla avviene per caso … anche se nulla è prescritto …
Non so quante volte ti ho detto “Ti Amo” ed in quanti modi abbia cercato di dimostrartelo, so quanto sia difficile riuscire a concordare le nostre rispettive famiglie … almeno siamo riusciti a far coincidere i nostri amici … ed è bellissimo ritrovarci con loro … accettati come coppia, come UNO, perché NOI SIAMO UNO … con i nostri difetti e le nostre imperfezioni, con i nostri gusti diversi e con le nostre abitudini, con i tempi ed i modi che ci contraddistinguono. Noi siamo due Entità che hanno trovato il punto di unione, il punto di equilibrio, a dispetto di tutto il mondo e degli uomini che ci vorrebbero diversi …
Basta sproloquiare, in questo pomeriggio inoltrato, nuvoloso e umido e con la pioggia incipiente …
Per intanto vi rimando alla prossima.
Vi saluto e Vi abbraccio. Vostro,Sal.
sabato, aprile 17, 2010
Lettera agli Amici
Carissimi,
sembra quasi che il tempo sia contro di noi.
La memoria si affievolisce, o meglio, cristallizza i bei momenti, ma una sorta di pigrizia mentale ci impedisce di cercare ancora.
Cosa è successo?! Cosa succede?!
Quale bivio abbiamo sbagliato per non riuscire più a trovare la strada di casa?!
Tutto era bello stando insieme.
Eppure ora, se ci reincontrassimo, una forma di pudore ci terrebbe ancora distanti. Temo i freddi incontri in cui, come vecchie comari ci raccontiamo i bei tempi andati, con il rammarico ed il languore per ciò che non sarà più.
E dire che c’eravamo promessi eterna amicizia, che ci saremmo sentiti e visti, scambiati gli indirizzi. Ma poi si ha quasi la vergogna di riprendere le vecchie agende e rileggere i numeri di telefono che non componiamo più da tempo. Intanto si cerca di conoscere altri e sempre si finge che sarà per sempre. Ma questo sempre dura fin quando ci si vede, poi, quando il treno è partito, si fa un respiro, si solleva il mento e si voltano le spalle e una vaga domanda sorge a fior di labbra: “Chissà se ci rivedremo più?!”; e più che una domanda è un’affermazione. Si potrebbe togliere il “chissà” e per noi avrebbe lo stesso significato. E’ l’amara coscienza che, in fondo,si ha paura di ripetere qualcosa di irripetibile, di rovinare, perpetuandola, una bellissima esperienza, l’atroce dolore se, rivedendosi, non ci si riconoscesse più.
E come potremmo?! Intanto saremmo così cambiati da sembrare altre persone, da soli o con altri, avremmo vissuto vite diverse.
E i nostri amici, cosa avranno fatto loro senza di noi?
Avranno vissuto!
E se ci reincontrassimo ci sforzeremmo di trovare frammenti divertenti, battute salaci, frugheremmo nelle monotonie delle nostre esistenze, cercando di trovare qualcosa che possa interessare anche loro che non le hanno vissute. Poi, stanchi, ci ritireremmo, ciascuno per un lato diverso, dissimulando il nostro imbarazzo per emozione, dicendoci pronti a ricontrarci ancora, ma con la profonda speranza che ciò non accada più.
D’improvviso, un giorno, da solo, scopri che in fondo puoi anche resistere alla delusione di vedere tutto cambiato, e provi!
Alzi il ricevitore formi il numero e aspetti che squilli e poi che rispondano. Alla voce che risponde computi il tuo nome, sforzandoti di ridestare nell’altro il ricordo della tua immagine, ma anche con il terrore d’essere stato inopportuno.
“Come stai?... quanto tempo … e degli altri ne sai qualcosa?...”
Ti rendi conto che stai parlando di sciocchezze.
La confidenza ha bisogno del bisbiglio di un alito fra le labbra, ha la necessità di una complicità di sguardi, di una reciprocità immediata e della vicinanza nello spazio e nel tempo, della frequenza di contatti. Il foglio di una lettere, i pochi minuti di una telefonata o l’incontrarsi dopo tanto tempo non basta, non puoi entrare nel profondo, non puoi capire né essere capito davvero. Potresti dire troppo poco, oppure, con la fretta di sintetizzare, potresti essere violento e spiazzare coloro i quali, ormai per convenzione si aspettano una conversazione normale: le classiche banalità che si raccontano i vecchi amici.
Già! Proprio così: vecchi!
Non ci si rende conto e non si vuole accettare che il tempo trasforma tutto e tutti.
Gli amici non dovrebbero avere alcun appellativo: né nuovi né tantomeno vecchi, né veri né falsi, né buoni né cattivi.
Gli amici dovrebbero essere solo amici.
Ma come si fa!
La vita ti porta a conoscere persone, con cui dividi parte della tua esistenza, e poi ti porta altrove, magari solo lontani di pochi passi, ma già altrove, da qualche altra parte, a vivere con qualcun altro, a lottare per ricominciare. E forse, in qualche modo, a cercare di dimenticare, per non soffrire oltre della mancanza di quella parte di te che hai lasciato in loro, nei tuoi amici di prima.
Dio, quanto è difficile!
Non si potrebbe restare tutti insieme per sempre, senza dover lottare contro la memoria, contro la delusione, contro il languore.
Amici miei vi amo!
Ma non ho il coraggio di dirvelo, perché il pudore d’una tale affermazione può soverchiarmi e può sconvolgere chi lo riceve.
Non voglio che nessuno si senta in debito con me per l’amore che ho verso di voi. E forse, proprio per questo non vi spedirò mai questa mia lettera, ma è stato per me importante scriverla (la mia segreta speranza è che, un giorno, qualcuno la legga e sappia dell’infinito bene che provo per tutti voi, Amici Miei).
Vostro,Salvo.
Questa lettera è stata scritta nel marzo del ’93…
Ora ho trovato il coraggio di spedirla …
Vi Amo Amici Miei!!!!
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